Educazione e Mezzogiorno dopo la caduta del fascismo.

Il convegno di Bari di studi meridionalistici del 1944 affrontò vari problemi, tra cui quello educativo.

Nelle relazioni e negli interventi si sostenne che per risolvere la “questione meridionale” non è sufficiente affrontare i problemi della riforma agraria e dei lavori pubblici, bensì quello “educativo delle masse lavoratrici”.

Rubino individuò nell’educazione delle masse “la redenzione vera ed eterna delle umili genti del lavoro di questo nostro negletto e travagliato Mezzogiorno d’Italia”.

E G. Serra, nella sua relazione, sostenne infatti, che “il problema centrale della classe dirigente sta nella sua formazione, cioè nella scuola”.

Quale cultura, dunque, è necessaria per tale fine? Non certo quella di cui si fornisce la classe dirigente meridionale dedita ad una cultura estranea alle funzioni che essa è chiamata a svolgere. Piero De Pase, però, è convinto che la sola educazione non può offrire le soluzioni ai problemi del Mezzogiorno.

Il dibattito è tuttora aperto sulle linee di fondo indicate nel convegno di Bari del 1944. E su quelle linee conviene discutere e agire.


Il Convegno di Bari del 1944.

Caduto il fascismo, mentre nelle regioni del Nord le repubbliche partigiane sperimentano nuove forme di organizzazione statale, con un certo interesse per i problemi della scuola (che tuttavia si limitano a seguire gli orientamenti prevalenti ricorrendo alla preparazione di testi scolastici in sostituzione di quelli fascisti, nello stesso tempo “accentuando la selezione e una concezione aristocratica della cultura superiore”)[1], nel Meridione, dopo l’8 settembre ’43 e la svolta di Salerno, la ripresa della vita democratica è segnata da un serrato confronto fra le forze politiche sul destino dell’Italia e del Mezzogiorno in particolare, in cui ampio spazio trova la trattazione, a livello di proposta politica, dei problemi educativi in relazione al tema della rinascita e dello sviluppo delle regioni meridionali.

Già al Congresso del Partito d’Azione, svoltosi a Cosenza nell’agosto del 1944[2], i problemi del Mezzogiorno ricorrono nelle relazioni di Guido Dorso e Manlio Rossi Doria, mentre quelli dell’educazione vengono affrontati da G. Rubino. Nel dicembre dello stesso anno si svolge a Bari, a cura del P.d’A., un Convegno di Studi Meridionalisti del Centro Permanente per i problemi del Mezzogiorno. Il Convegno si apre con un discorso di Adolfo Omodeo, ministro per l’Educazione Nazionale nel governo costituito il 22 aprile da Pietro Badoglio, cui seguono le relazioni di Guido Dorso sulla classe dirigente meridionale, di Manlio Rossi Doria sui problemi della terra e del latifondo, di Francesco Liuni, Michele di Zonno e Gaetano Generali sull’industrializzazione e di Michele Cifarelli sull’autonomia regionale[3]. Non figura una relazione specifica sui problemi della scuola nel Mezzogiorno e tuttavia il problema educativo è posto in larga misura sia nelle relazioni sia negli interventi.

Soprattutto la relazione di Dorso offre motivi di riflessione che vengono colti nel dibattito. Egli si pone preliminarmente l’obiettivo di delineare le possibilità di rinnovamento della classe dirigente meridionale, partendo dall’analisi della sua formazione sul piano storico. In questo quadro grosse responsabilità addossa alla borghesia professionistica e intellettuale, la quale “essendosi sviluppata a latere di quella terriera, ha anch’essa contribuito a mantenere l’immobilità del paese, perché subordinata agli interessi fondamentali della classe agraria, cui presta i suoi servigi, non è riuscita a superare decisamente l’orizzonte di quella”[4]. È la continuazione dell’aspra polemica di Salvemini contro la piccola borghesia umanistica, presente nei partiti e nelle associazioni culturali del Mezzogiorno con funzioni sempre direttive, che finiscono con l’imprimere un carattere moderato, quand’anche non conservatore o reazionario, proprio per il tipo di formazione culturale alle organizzazioni politiche che pure sorgono su istanze di rinnovamento[5].

Il tema di una formazione di una classe dirigente, capace di guidare la rinascita del Mezzogiorno, è svolto a Bari in interventi di rilievo finalizzate ad indicare la soluzione del problema a seconda della prevalenza del discorso politico-economico o di quello che affida all’educazione il compito precipuo di educare allo sviluppo. Già a Cosenza nel mese di agosto 1944 G.Rubino aveva fatto rilevare ad un’assemblea in cui, accanto ai massimi dirigenti del Partito d’Azione, quali La Malfa, Lussu, Omodeo, De Martino, Fiore, erano presenti i capi locali degli altri partiti antifascisti, che per risolvere la questione del Mezzogiorno non era sufficiente affrontare i problemi della riforma agraria, dell’industrializzazione e dei lavori, ma che andava affrontato chiaramente “quello spirituale, educativo delle masse lavoratrici”. Il Rubino, che vedeva nel ceto dei lavoratori la classe più interessata alla rinascita e allo sviluppo economico del sud, individuava nell’educazione delle masse “la redenzione vera ed eterna delle umili genti del lavoro di questo nostro negletto e travagliato Mezzogiorno d’Italia”[6].

Al Convegno di Bari il discorso sul protagonismo delle masse lavoratrici non trova sviluppo per la natura stessa del convegno, un’assemblea di intellettuali che si ritengono diversi dai borghesi umanistici di vecchi stampo e in seno ai quali si manifesta quanto Amendola additerà in Guido Dorso, “la persistenza di una concezione demiurgica (propria anche di “Giustizia e Liberta”) di un “pugno di eroi” che si sostituisce alle masse, concezione nella quale si esprime la pretesa dell’intellettuale meridionale di essere il vero attore della storia”[7]. Prevale invece il discorso sulla formazione della classe dirigente per la futura azione di sviluppo delle regioni meridionali. In ciò è dato assistere al confronto fra le due “anime” più rappresentative del P.d’A., l’una facente capo a La Malfa, e che oggi è possibile definire liberal-democratica, e l’altra rappresentata da Lussu e De Martino di chiara impostazione politico-ideologica socialista. Lo scontro si era risolto mesi addietro solo provvisoriamente al Congresso di Cosenza, con la vittoria dell’o.d.g. Lussu-De Martino, che aveva segnato la sconfitta di La Malfa[8]. Alla tendenza liberal-democratica, con momenti significativi di conservazione culturale, si può ricondurre il discorso di Giuseppe Serra, incentrato sul problema educativo[9].

Riferendosi ai giudizi espressi da Guido Dorso sulla borghesia umanistica e dopo aver sostenuto la necessità della distinzione fra classe dominante e classe dirigente, afferma: “Il problema centrale della classe dirigente sta nella sua formazione, cioè nella scuola”. Da qui l’oratore si porta a considerazioni anticipatrici del dibattito attuale sui rapporti fra educazione e sviluppo[10], e sulla qualità delle strutture formative nel Mezzogiorno. Il Serra considera impegno primario della classe dirigente, al momento in cui assume la guida dello sviluppo, “rendersi idonea alle funzioni che l’ambiente geografico, storico e sociale umano le impongono”. Da qui una serie di riflessioni sul tipo di formazione culturale della classe dirigente meridionale condotte sulla scorta di dati statistici personalmente raccolti ed elaborati nella città di Lecce. “Assodai – informa – che nel solo anno 1943 in Lecce si erano concessi ben 435 titoli di maturità e di licenza di scuola media superiore”. Proiettando tale dato in un periodo di trent’anni conclude che, alla fine del primo ciclo, si avranno “ben diecimila e più titolati, i quali tutti coesisteranno, militando nella piccola e grande classe dirigente. In termini militari, essi sarebbero altri diecimila ufficiali”. Sicché prevede che nella sola provincia di Lecce, soltanto una persona su quattro lavorerà e in seno agli occupati i dirigenti saranno più della metà. “Ecco dunque che noi abbiamo più dirigenti che lavoratori, e in questo senso mi pare che non sia a parlare, come alcuno ha accennato, di scarsezza della classe dirigente”, mentre si profila il triste fenomeno della disoccupazione intellettuale. Previsioni queste che non si riveleranno del tutto infondate, specie se si considera che si basano sui dati statistici, considerato i tempi, fortunosamente raccolti. In ogni caso, proprio nella provincia di Lecce, i disoccupati nel 1953 saranno 92.000 su una popolazione di 622.873 abitanti (mancano i dati sulla popolazione attiva), accertati dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulla miseria in Italia[11]. Così come non è incompatibile con una corretta impostazione del problema della formazione della classe dirigente osservare da parte del Serra che “contro 29 licenze d’istituto tecnico agrario, stanno ben 102 maturità classiche (conseguite nella sola sessione di luglio) e ben 102 abilitazioni magistrali”. Un fenomeno di “tragico disordine in quanto il tipo di cultura di cui si fornisce la futura classe dirigente meridionale è del tutto estraneo alle funzioni che dovrebbe svolgere”, una cultura che viene tra l’altro richiesta “con una esasperante indifferenza e renitenza per il suo contenuto e una feroce ambizione per i suoi attestati o titoli ufficiali”. Per di più secondo l’oratore “l’abbassamento progressivo e sistematico dei minimi di preparazione” è alla base dell’illusione di una facile lotta contro l’analfabetismo “mediante la mendace suggestione di un facile corso di studi e con la promessa di vita migliore o almeno più comoda”. Mentre altro non si consegue se non l’isolamento e il confinamento nell’ignoranza del contadino e dell’operaio, perché “incoraggiando ad imprese scolastiche assurde anche le minime forze intellettuali di ogni ceto, noi abbiamo strappato al lavoro e, particolarmente alla campagna, tutti costoro che non vi tornano più”. Pochi perciò restano legati alla terra, diffidando “dei rari sparsi tecnici” con i quali è difficile intendersi “perché parlano lingue assolutamente diverse”, mentre la massa dei braccianti rimane confinata al “minimo grado d’opzione” e mancano ancora i tecnici e gli operai specializzati.

In effetti, nel 1953, per i lavori della Cassa per il Mezzogiorno con un totale di 3 milioni di giornate lavorative, si dovrà registrare la mancanza, anche nella provincia di Lecce, di operai specializzati e ripiegare “sulla organizzazione di cantieri vivaisti”, mentre il fenomeno dell’analfabetismo appare come “l’indice del disagio economico della popolazione” leccese, in seno alla quale oltre il 20% degli obbligati alla istruzione primaria evade, anche per la deficienza di edifici scolastici soprattutto nelle campagne[12].

Intanto, secondo Serra, “coloro che si sono arrampicati per l’agevole scala della scuola” vanno a “gonfiare la pletorica classe dirigente”, che “comprenderà una enorme massa di delusi, di neutri, di orecchianti di tutto e veramente consapevoli di niente, di esseri disgustati ormai definitivamente della zappa e nel contempo inetti a reggere la penna, gente che non saprà mai leggere, ma sempre compiterà, che non saprà mai sottoporre a valutazione critica i concetti che le vengono forniti e perciò stesso cadrà, con eterno e costante ritorno, vittima di qualsiasi propaganda bugiarda, adeguandosi sempre ad ogni errore mostruoso”. E dopo aver informato che all’Università di Bari 400 giovani stanno per laurearsi in giurisprudenza (“Sarebbe una bella cosa se non fosse invece una tragica farsa, e non la prima, forse nemmeno l’ultima”), si chiede: “Quando si comprenderà che i problemi sociali si risolvono prima di tutto nella scuola, quando giungeremo ad una intransigenza magari anche calvinistica?”12 bis. Denuncia poi che si trovano ginnasi e licei nei più piccoli centri del Meridione, in cui non esiste nemmeno una scuola di avviamento al lavoro; ginnasi e licei frequentati in base a motivazioni che prescindono da scelte vocazionali per ubbidire invece al richiamo di una scuola in cui si ravvisa un momento di ascesa sociale, cui non corrisponde una domanda di formazione culturale da armonizzare con le esigenze di rinascita e di sviluppo delle regioni meridionali in cui pure vivono. Per cui, a suo avviso, il problema della classe dirigente meridionale consiste essenzialmente in questo: “Meno licei e più scuole agrarie, meno licei e più scuole tecno-industriali. Diamo all’Italia Meridionale, alla classe dirigente meridionale, la scuola che educhi i suoi cittadini alle funzioni che sono essenziali a questa società”[13].

L’intervento di Serra, qui riproposto, riprendendo tra l’altro la nota polemica salveminiana sulla formazione della piccola borghesia umanistica non solo, ma anche le denunce sul tipo di strutture scolastiche esistenti nel Meridione, in rapporto a quelle del Settentrione d’Italia, in cui prevalgono le scuole tecniche professionali che fanno da condizione necessaria per le condizioni di benessere[14], rivelano che al Convegno di Bari è fortemente avvertita l’esigenza di porre i rapporti fra educazione e sviluppo su un piano di contestualità fra processi di trasformazione e processi educativi, anche se in certi passaggi prevale, illuministicamente, il secondo momento sul primo, quando cioè si confida che una classe dirigente educata e formata alla trasformazione assicuri senz’altro la rinascita del Mezzogiorno. Interessante è ancora rimarcare che sia nel discorso di Giuseppe Serra sia nelle proposte di Lucarelli e di Omodeo, sul problema dell’istituzione di scuole agrarie e della facoltà di ingegneria navale, emerge la consapevolezza della necessità che la rinascita economica venga gestita dai gruppi direttamente interessati al cambiamento, sicché la classe dirigente meridionale deve svolgere il duplice ruolo di agente dello sviluppo e di beneficiaria degli interventi attuati sulla base di un programma o di un piano che in misura determinante si è contribuito a formulare. L’integrazione fra momenti di trasformazione e momento educativo appare maggiormente presente nell’intervento di Piero De Pase, secondo il quale è da respingere l’idea che la sola educazione possa offrire tutte le soluzioni ai problemi del Mezzogiorno, così come non si può credere che le semplici concessioni materiali possano di per sé consentire la formazione del cittadino[15]. Per De Pase il problema educativo è “problema base di ogni nazione e associazione umana”. Esso esiste però in modo particolare nel Mezzogiorno d’Italia e in ogni caso deve essere posto al centro della questione meridionale, “così che accanto ai tre comuni aspetti sotto i quali si suol vedere tale questione, e cioè l’aspetto industriale, l’aspetto agricolo e l’aspetto politico, non si può in alcun modo prescindere da questo quarto aspetto che io presento, cioè l’aspetto educativo; il quale va posto anzi come premessa necessaria agli altri tre, e anche ad ogni altro, perché esso è condizione di progresso in tutti i campi della Nazione”[16]. E tuttavia bisogna comunque intendersi sul significato e sul valore dell’educazione. Per l’oratore, di dichiarata fede mazziniana, educazione è soprattutto educazione morale e intellettuale, intesa “come dovere e come istruzione, come coscienza insomma, il che poi insieme significa coscienza oltre che morale e culturale, anche politica, igienica ecc.”[17]. Un tale tipo di educazione deve potersi diffondere su tutti gli strati della popolazione e non solo sulla classe dirigente. Afferma poi che “è inutile notare, come ha notato il prof. Lucarelli, che il Mezzogiorno abbia avuto i suoi Salvemini e i suoi Fortunato, i quali, col loro ingegno illustrarono tutta l’Italia e non solo l’Italia Meridionale, per il fatto che non è già con una coscienza superiore in senso assoluto (posseduta da pochi) che si risolvono i complessi problemi sociali e politici, bensì con un buon grado medio di tale coscienza (relativo a tutto il popolo); e oggi si tratta di aumentare quella media. Se nelle moltitudini meridionali si raggiungerà un più elevato grado di coscienza morale, culturale e politica, la soluzione dei problemi materiali del Mezzogiorno, avverrà senz’altro; diversamente le forze reazionarie non permetteranno mai quelle soluzioni, né miglioramenti di sorta. Si tratta quindi di rendere le moltitudini consapevoli, e di liberarle, una volta per sempre, attraverso la consapevolezza, dall’attaccamento dannoso alla monarchia, alla chiesa, ai loro padroni borghesi; si tratta di creare il cittadino”[18]. Aggiunge poi che “se parallelamente alle concessioni materiali e alla soluzione dei problemi industriali e agricoli, non contribuiremo a sorvegliare le moltitudini e a creare quella coscienza, finiremo col non creare il cittadino ma un nuovo borghese, un nuovo poltrone”[19]. Propone perciò di mettersi subito al lavoro, organizzando riunioni anche nelle campagne, convegni e congressi di ogni sorta e di stimolare così, dopo vent’anni di non partecipazione del cittadino alla vita dello stato, l’interesse per la politica, oltre che provvedere a istituire scuole tecniche, agrarie, di viticoltura, di enologia ecc.. “Tutto questo per creare non certo un puro e semplice grado di istruzione, ma l’educazione nei suoi vari aspetti, la coscienza”. Coscienza che porti a convincersi, “senza per ciò offendere la religione, che nulla sulla terra dipenda da S. Gennaro o da S. Nicola o da altri Santi, ma tutto dipende da noi, se lavoriamo e se impariamo a leggere e a scrivere e a fare il nostro dovere”[20]. E, parafrasando il Mazzini dei “Doveri dell’uomo”, sostiene in conclusione che “la libertà, i diritti nostri, la nostra emancipazione da condizioni sociali ingiuste, dipendono dal grado di educazione che raggiungiamo, non possiamo avere coscienza dei nostri diritti e non possiamo ottenere quella partecipazione alla vita politica, senza di che non riusciremo ad emanciparci”[21].

Un intervento, questo di De Pase, che si inserisce nella migliore tradizione democratica e progressista meridionale[22] e che anticipa molti di quelli che saranno i temi di fondo delle posizioni laiche sui problemi della scuola. D’altra parte non è difficile rinvenire nel discorso prima riferito precisi richiami al dibattito sulle questioni educative svoltosi in seno al movimento operaio dalle origini fino alla fine del secolo scorso, in seno al quale la corrente mazziniana ha sempre sostenuto la necessità della prevalenza dell’educazione morale del cittadino su progetti educativi incentrati sui concetti di efficienza e di semplice adeguamento delle strutture scolastiche alle esigenze di politica economica[23].

Si deduce poi dalle indicazioni di De Pase che il problema meridionale non è solo un problema da risolvere con interventi economici cui armonizzare le strutture educative, ma è soprattutto un problema di natura politica, per il quale è necessario partire dalla consapevolezza delle ragioni del sottosviluppo per risalire poi alle acquisizioni degli strumenti per il loro superamento. In questo quadro il ruolo dell’educazione si ingrandisce e si carica dell’impegno di risvegliare le coscienze meridionali, formando i cittadini alla partecipazione politica e all’impegno civile.

Sarebbe ora fin troppo facile dimostrare dove gli azionisti di Bari sbagliavano nel 1944. Il punto però non è questo e non è questo lo scopo del presente articolo, che vuole solo ricostruire un momento emblematico delle tensioni ideali e politiche che animavano la ricostituzione dei partiti democratici, dopo la caduta del fascismo e mentre era ancora in corso la guerra di Liberazione. I problemi agitati al Convegno di Bari sul tema dell’educazione, a parte la pretesa avanzata da Amendola, sono quelli che entreranno a far parte della letteratura meridionalistica, di tendenza democratica e socialista, specie in ordine ai rapporti fra educazione e rinascita del Mezzogiorno. L’opposizione enunciata da Serra, all’alfabetizzazione degli adulti fine a se stessa, non inserita in un processo globale di trasformazione, troverà motivi di conferma nel dibattito tuttora in corso sulla politica d’istruzione popolare perseguita dopo il governo Parri e dopo il 1948[24]. Così come le considerazioni sulle funzioni dell’educazione in una società che voglia fare dell’emancipazione politica, sociale e morale, il suo fine primario, anche quando si tratti di raggiungere mete particolari  come quelle del superamento del divario economico fra una parte e l’altra del paese, anticipano i temi del confronto sulla scuola, svoltosi in seno all’Assemblea Costituente fra la componente laica, democratica e socialista, la componente cattolica e quella comunista.[25]

Che se poi la scuola italiana è segnata dal 1948 nel suo destino dalla politica di restaurazione, seguita all’uscita della sinistra dal governo, (nella storia della scuola non è dato distinguere fra ricostruzione e restaurazione, come invece appare possibile ad alcuni nella storia politica in senso stretto), che mise in soffitta fermenti e propositi di rinnovamento delle strutture educative, ciò conferisce altri motivi di interesse per la ricostruzione di un momento particolare del dibattito fra i partiti sul problema della scuola, per il quale il Convegno di Bari del P.d’A. nel 1944 si può dire che ha indicato le linee di fondo del suo sviluppo, in un momento in cui i partiti, ricostituendosi, si avviavano a svolgere la funzione riconosciuta dalla Costituzione e a prepararsi, a proporsi come veri e propri apparati pedagogico-educativi”[26].



[1] B.M. Bellerate – D. Novacco, La scuola italiana dal XIX sec. ad oggi, in “Trattato delle scienze pedagogiche”, a cura di M. Debesse e G. Mialaret, vol. II, Roma 1973, pp. 431 e segg.

[2] E. Lussu, Sul partito d’azione e gli altri, Mursia, Milano 1968, pp. 99-112.

[3] Centro Permanente per i problemi del Mezzogiorno (d’ora in poi C.P.P.M.), Dati storici e prospettive attuali della questione meridionale, in Atti del Convegno di Studi sui problemi del Mezzogiorno, Tip. Ed. Canfora, Bari 1946.

[4] G. Dorso, La classe dirigente meridionale, in C.P.P.M., cit., p. 15.

[5] G. Salvemini, Scritti sulla questione meridionale (1896-1955), Einaudi, Torino, 1955.

[6] G. Rubino, La questione del Mezzogiorno e il Partito d’Azione, in “Emancipazione”, Cosenza, anno II, n. 22 del 19 agosto 1944. Il corsivo è nostro.

[7] G. Amendola, Gli anni della Repubblica, Ed. Riuniti, Roma, 1976, pp. 287-288.

[8] E. Lussu, op. loc. cit.

[9] C.P.P.M., cit. pp. 122-126.

[10] AA.VV., Educazione e sviluppo, Atti del Convegno Nazionale dell’ASPEI, svoltosi a Vico Equense dall’1 al 5 maggio 1979, Roma 1981; cfr. in particolare la relazione di A. Broccoli, “Educazione e sviluppo nel Mezzogiorno”; vedi anche G. Trebisacce, “Educazione e sviluppo nella società italiana”; Considerazione in margine al Congresso Nazionale di Pedagogia”, in L. E. B., Cosenza, anno I, n. 1, ott.-dic. 1979, pp. 80-93.

[11] Camera dei Deputati, Atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla miseria in Italia e sui modi per combatterla, vol. VII, Roma, 1953, p. 131 (d’ora in poi ATTI ecc.)

[12] ATTI ecc., cit.,pp. 131-133. Su 1794 classi elementari si hanno nella provincia di Lecce 1201 aule, di cui 324 in locali di fortuna. Nell’anno scolastico 1952/53 ai 499 corsi popolari risultano iscritti 1891 analfabeti e 6818 semianalfabeti.

12 bis G. Serra, op. cit., p. 125.

[13] G. Serra, op. cit., pp. 125-6.

[14] G. Salvemini, op. loc. cit. Mentre in Lombardia esistono 29 ginnasi con poco più di 3.000 alunni e 49 scuole tecniche con 10.000 alunni, in Sicilia, ai tempi dello storico pugliese, si hanno 46 ginnasi con 5.591 alunni e 36 scuole tecniche con 6.930 alunni. Sicché la Lombardia ha solo 2.102 persone dedite alla professione liberale e agli impieghi, “46 azzecca-garbugli per ogni 100.000 abitanti, mentre la Sicilia ne ha ben 4.671, cioè 130 per ogni 100.000 abitanti”.

[15] P. De Pase, in C.P.P.M., cit., pp. 164-167.

[16] P. De Pase, op. loc. cit., p. 164.

[17] P. De Pase, op. loc. cit., p. 165.

[18] P. De Pase, op. loc. cit., p. 166.

[19] P. De Pase, ibidem.

[20] P. De Pase, op. loc. cit., p. 167.

[21] P. De Pase, ibidem.

[22] Cfr. su questo tema A. Broccoli, Educazione e politica nel Mezzogiorno d’Italia (1767-1860), La Nuova Italia, Firenze, 2ª ristampa 1973.

[23] G. Manacorda, Il movimento operaio italiano attraverso i suoi congressi, Ed. Riuniti, Roma, III, ed. 1974.

[24] A. Lorenzetto, Alfabeto e Alfabetismo, Roma 1960; G. Zanfini, Vent’anni al servizio dell’alfabeto,Pellegrini, Cosenza, 1967.

[25] R. Fornaca, I problemi della scuola italiana dal 1943 alla Costituente, Armando, Roma 1972; D. Novacco, Dalla paralisi fascista al rinnovamento democratico, Flaccovio, Palermo 1969; T. Tomasi, La scuola italiana dalla dittatura alla Repubblica, Ed. Riuniti, Roma, 1976; nonché D. Bertoni Jovine, La scuola italiana dal 1870 ai giorni nostri, Ed. Riuniti, Roma 1958.

[26] A. Broccoli, L’educazione alla pace come pratica di libertà, in AA.VV., Educazione alla pace, Città Nuovo, Roma, 1981, p. 76.