Metastasio a Scalea

L’epifania di un poeta

1 –  Nella formazione dei poeti i luoghi e le persone hanno avuto da sempre una funzione determinante. Manzoni è sempre rimasto legato alla sua educazione giovanile a Parigi, a Carlo Imbonati e a Claude Fauriel,  Dante a Firenze e a Brunetto Latini, Svevo a Trieste e  a Montale, Brancati a Catania e ai suoi compagni di liceo, Corrado Alvaro all’Aspromonte e si potrebbe continuare. Pietro Metastasio si riconosce debitore, per la sua educazione giovanile, a Scalea e ai suoi due educatori calabresi, Gran Vincenzo Gravina e Gregorio Caloprese. In Calabria scopre la sua vera vocazione poetica e a Scalea matura le idee guida della sua concezione del melodramma, e non importa se questo avverrà in aperta contraddizione con gli insegnamenti ricevuti, specialmente, dal Gravina. A Scalea in particolare si può affermare che Metastasio prende consapevolezza  che non potrà mai corrispondere alle aspettative dei suoi maestri. Gravina ne vuole fare un poeta tragico, Caloprese si aspetta che il ragazzo romano affidatogli dal cugino consolidi la sua vocazione alla poesia con robuste conoscenze filosofiche.


Ma il giovanissimo Pietro, pur sforzandosi di seguire i precetti poetici del Gravina e le lezioni filosofiche del Caloprese, si tiene lontano dalla tragedia e s’annoia mortalmente durante le ore di filosofia. Il ragazzo di Roma d’altronde è figlio del suo tempo e non riesce a seguire i suoi maestri nel rifiuto della poesia barocca e nell’adesione ai dettami del cartesianesimo. Certo, non ha  ancora quattordici anni quando incomincia a frequentare la scuola di Caloprese a Scalea, ma durante il soggiorno su questo lembo estremo della Calabria nordoccidentale si forma radicate convinzioni nell’arte musicale e nella letteratura, corroborate in ogni caso  dalle nozioni filosofiche impartitegli da Caloprese, che ne faranno un giorno il più grande poeta melodrammatico europeo. Nell’immediato quella  scuola lo annoia e poco gli interessa la filosofia, ma, come spesso succede, solo in seguito si renderà conto dell’importanza di quelle lezioni così faticosamente e controvoglia seguite. Quando sarà infatti nel pieno dello splendore di poeta di corte a Vienna, ritornerà più di una volta a ricordare quegli anni di studio disciplinato e rigoroso al quale Caloprese lo costringeva. E lo farà con sensi di profonda gratitudine e di grande nostalgia. Ripensando ai paesi della costa tirrenica, rivedrà nella memoria i colori delle spiagge e delle colline che incorniciano un paesaggio di rara bellezza. In questo scenario muove i suoi primi passi verso la consacrazione a poeta cesareo, da Scalea incomincia il lungo viaggio verso la gloria di quel ragazzo che nel 1708, all’età di dieci anni, incontra a Roma Gian Vincenzo Gravina, già apprezzato studioso di diritto e intellettuale prestigioso dell’Arcadia, che ne intravede immediatamente le grandi potenzialità; lo adotta e s’incarica di istruirlo a dovere nella difficile arte della poesia. Il ragazzo già improvvisa versi su qualsiasi cosa, a richiesta di chiunque, ma non ha alcuna cognizione teorica e nessuna competenza tecnica. Gravina si rende conto che le sue abilità creative vanno educate e disciplinate. C’è bisogno di una scuola, rigorosa e severa, e lui sa dove portarlo. E lo porterà un giorno a Scalea, alla scuola di un suo parente, già suo stesso insegnante, quel Gregorio Caloprese, più grande di lui di dieci anni, che ha lasciato Napoli, per ritirarsi nel suo paese e dedicarsi all’educazione dei giovani delle migliori famiglie meridionali. Il futuro maestro del Metastasio è conosciuto come uno dei più convinti seguaci della filosofia di Cartesio in Italia; per iniziativa  di Giambattista Vico lo chiamano “grande renatista”, è apprezzato e stimato da tutti gli intellettuali napoletani, primo fra tutti Giannone, è  gradito al potere, come prova l’incarico ricevuto dal viceré, il duca di Medinaceli, di tenere delle conferenze sulla politica all’Accademia Palatina nel 1698. Ma a Napoli incontra anche molte ostilità e così decide di ritornare a Scalea. Per Metastasio è una fortunata coincidenza, per Caloprese l’occasione per mettersi alla prova come precettore, attraverso un insegnamento fondato essenzialmente sull’etica del dovere e dell’impegno culturale. Gravina è convinto che solo in questa scuola il suo protetto può  trovare tutto quanto occorra alla sua maturazione umana e culturale. E a Scalea lo porta, approfittando di un viaggio a Napoli, e a Scalea lo lascia a studiare per più di un anno.

Va comunque rimarcato che l’interessamento del Gravina per il giovane Pietro Trapassi (solo in seguito il precettore ne grecizzerà il cognome in Metastasio) è dovuto soprattutto all’intervento del cardinale Ottoboni, grande protettore di artisti e letterati. Si vuole anzi che sia proprio il porporato romano a chiedere a Gravina di provvedere alla migliore educazione di quel ragazzino, che ha già dato prova di sé come verseggiatore estemporaneo. Al calabrese viene affidato nello stesso tempo il fratello del futuro poeta, Leopoldo. Così il loro padre, Felice, rimasto vedovo con quei due bambini, può continuare a curare il suo negozio di olio e farina in via dei Cappellari, a Roma, aperto con i proventi del servizio militare per la Chiesa. Si dibatte ancora se l’incontro fra Gravina e il poeta in erba abbia avuto luogo in una bottega, nella bottega del padre,  o per le strade di Roma, dove il ragazzino è solito dare spettacolo delle sue eccezionali qualità. In ogni caso i due fanno conoscenza proprio nell’anno in cui esce il testo più importante del Gravina, e cioè Della Ragion poetica, nel 1708, come già detto. “Vigorosa appare l’affermazione” rileva Pasquino Crupi “che la poesia è imitazione della natura e che essa deve essere utile e dilettevole”.[1] Per ottenere questo, secondo l’intellettuale di Roggiano, bisogna fare ricorso alle favole che sole possono consentire al poeta di realizzare il suo compito, vale a dire “l’espressione del vero sotto l’ombra del finto, e la rassomiglianza del naturale”, come ha affermato già nel Discorso sopra l’”Endimione” di Alessandro Guidi”, pubblicato a Roma nel 1691, con una chiara presa di posizione contraria al dominante barocco. Che il piccolo Pietro abbia potuto prendere visione di tale scritto, può essere verosimile, ma non può certo indurre ad affermare che ne abbia assimilato i principi. Senza dubbio il Gravina incomincia ad avviare l’educazione poetica del ragazzo fin dal 1708, prospettandogli l’esempio dei grandi autori tragici del mondo antico, le cui opere esaltano la funzione civile della poesia, che è quella di sprigionare “i lumi ascosi della ragione”. Gli indica i tre generi della poesia, l’epico, il drammatico e il lirico, ma gli suggerisce di comporre tragedie, magari proponendogli come esempi le sue, tutte classicheggianti, Palamede, Andromeda, Appio Claudio, Papiniano, Servio Tullio, “cinque autentici naufragi”, secondo Crupi: “Apparvero e sparirono nel porto di Napoli nel 1712”[2].  E in questo stesso anno il giovanissimo allievo compone la sua prima opera, una tragedia appunto, intitolata Giustino, per compiacere il suo protettore e maestro. Non è certo una prova esaltante, e la pochezza della sua fatica sarà presa a pretesto in seguito per evidenziare il rigetto dell’insegnamento graviniano da parte di Metastasio. Il ragazzo rivela con Giustino, nell’amore tra il protagonista e la principessa Sofia, nipote di Giustiniano, l’attitudine a cantare i sentimenti più semplici e spontanei, non tanto le grandi passioni, irriducibili e incociliabili, proprie della tragedia classica. E tuttavia quella prova, tentata a soli 14 anni, convince il Gravina che non s’è sbagliato nell’aver intuito che un grande poeta potrebbe nascere da quel ragazzo, sol che venga educato nell’arte, nella letteratura e nella filosofia.

Ci si potrebbe chiedere perché lo affida a Caloprese e non continui lui stesso l’opera educativa avviata a Roma. Bisogna fare un passo indietro. Gravina non è ben visto a Roma, da quando ha rotto con l’Arcadia, l’accademia poetica nata con la protezione della Chiesa su impulso dell’ex regina di Svezia, Cristina, nel 1689. Ne era stato, all’inizio, il redattore delle norme istitutive, con De legibus Arcadum, ma quando pubblicò nel 1691 l’Ydra mistica,  una vera e propria ripresa della  teoria politica di Dante, quella dei due soli, schierandosi dalla parte dell’imperatore con forti atteggiamenti antigesuiti, proprio mentre riesplodeva il conflitto tra Papato e Impero, Gravina cadde  nel sospetto di eresia e perse le simpatie dell’Arcadia, attestata sulla difesa dell’autonomia della Chiesa dall’Impero. Dovette allontanarsi da Roma, per motivi politici,  che avevano però delle ricadute sul piano letterario e poetico, ravvisabili nella rivalità con il Crescimbeni, che mal sopportava il razionalismo graviniano.[3] Per di più nel 1707 Carlo III d’Asburgo, il futuro Carlo VI,  era disceso in Italia e Gravina pensò bene di paragonare la spedizione a quella di Arrigo VII tante volte attesa e invocata da Dante. Ce n’era abbastanza perché su Gravina si concentrassero le attenzioni dell’Inquisizione, viste anche le sue mai celate simpatie per il partito filoimperiale degli Odescalchi e dei Borghese.

Ma la situazione, vissuta per almeno quattro anni in un clima di sospetti e diffidenze reciproci, diviene non più sostenibile quando Gravina fonda l’Accademia dei Quirini, cui fa aderire anche Metastasio. S’allontana da Roma e si dirige prima a Napoli e poi a Scalea, per incontrare il cugino e presentargli il suo protetto. Vuole che il ragazzino si tenga lontano da Roma per qualche tempo, per evitare le ritorsioni dei gesuiti contro di lui, alunno di un maestro come Gravina, diventato ormai un eminente giureconsulto, da quando nel  1708 ha pubblicato a Lipsia i suoi studi di diritto,  nel  De origine iuris civilis, ed era divenuto un soggetto pertanto difficile da emarginare, anche se nel 1713 Clemente XI emanerà, con l’Unigenitus,  la sua condanna contro il giansenismo, per il quale  l’intellettuale calabrese aveva espresso condivisione piena. Nello stesso tempo tenere lontano Metastasio da Roma, significa sottrarlo ai condizionamenti dell’ambiente letterario dominato dal barocco, per Gravina vuota rincorsa di artifici poetici inconsueti e inediti, mentre la poesia, con la stessa favola rappresentativa, deve ripartire dalla lezione dei classici, e specie da quella dei poeti tragici. La fantasia e la precoce attitudine al verseggiare del giovanissimo Pietro proprio nel barocco possono trovare alimento e fascino, data la sua giovanissima età, facilmente impressionabile e indifesa, e appunto per questo si rende necessario rafforzarla con le basi teoriche indispensabili alla creazione poetica. Il fine ultime del giureconsulto calabrese, fallito come poeta, è quello di “restaurare la tragedia greca come invenzione, endecasillabo, scene”[4], e nel ragazzo che ha preso a proteggere spera finalmente di realizzarlo. Gravina non è riuscito ad essere altro che “arido verseggiatore, pedestre, povero d’invenzione, monotono, elencatore di figure decorative e prive di vita”[5] e non gli resta che sperare nel suo allievo poco più che adolescente, ma già avviato con sorprendenti risultati al successo in poesia. Certo con il Giustino non dà certo prova degna di un  poeta tragico, il Metastasio, né può essere altrimenti: la città di Roma, pervasa dalla magnificenza vaticana da una lato e dalla frivolezza dei salotti barocchi dall’altro, non è l’ambiente adatto per lui. Né ravvisa Gravina la possibilità di educare il ragazzo secondo i suoi progetti, nell’Urbe, dominata e soffocata dalla cultura gesuitica, che informa e caratterizzata dogmaticamente l’Arcadia. Il tentativo poi di un’accademia alternativa, come quella dei Quiriti, non ha dato i frutti sperati. Non resta che fargli cambiare aria e non vede di meglio che ricorrere al suo stesso maestro, a quel Caloprese, che con il suo cartesianesimo può aiutare il giovanissimo poeta a dotarsi delle basi razionali teoriche che gli mancano.

 

A scuola da Caloprese: un periodo di “tetre meditazioni”

 

2        – Metastasio si trova già a Scalea nel 1712, lo stesso anno della composizione del Giustino, che probabilmente viene fatta conoscere allo stesso Caloprese. Non è dato sapere il giudizio del filosofo di Scalea, ma dalle teorie formulate sulla poesia e sull’arte si può, come si vedrà più avanti, ragionevolmente pensare che quel dramma, modellato su L’Italia liberata dai Goti di Gian Giorgio Trissino non è certo una risposta conseguente alle aspettative del cugino. In quell’opera, l’autore – ragazzino, “pur aderendo alle simpatie filo – imperiali del Gravina, con la narrazione della guerra tra Ostrogoti e bizantini per la riconquista dell’Italia da parte del Cesare romano d’Oriente, già faceva emergere le ragioni dei sentimenti di ogni essere umano, inestricabilmente unite alle passioni civili e politiche, nella vicenda d’amore tra il protagonista, Giustino, e Sofia, la nipote di Giustiniano”[6]. Sentimenti appunto, non passioni e soprattutto senza quell’ineffabile pathos che la tragedia richiede. E questo viene preso a pretesto da più di uno studioso per parlare di delusione del Gravina nei confronti del suo allievo, tanto che qualcuno arriva persino a sostenere che Metastasio sconfessa il suo maestro, anche se poi lo ricorderà sempre “con venerazione” e gratitudine[7], riferendosi al sonetto La strada della gloria, dove Metastasio così si dichiara riconoscente al suo maestro, Gravina:

E se quanto conosco e quanto sono,

                                fuorché la prima e rozza informe spoglia,

                               di tua man, di tua mente è tutto dono

 

Lo stesso Carducci, a proposito dell’apprendistato poetico del Metastasio, dice che Gravina voleva che il suo allievo si rifacesse ad Ariosto, mentre quello preferiva Tasso; che il maestro non amava il Seicento e l’allievo invece leggeva l’Adone di Giambattista Marino. Tutto questo è vero, ma ha visto senz’altro meglio Luigi Russo, quando afferma che le lezioni del Gravina hanno avuto sul Metastasio “efficacia disciplinatrice e non risvegliatrice”[8].

Al Caloprese viene chiesto di insegnare soprattutto filosofia a Metastasio, anche se, come alunno della sua scuola, il ragazzo di Roma è tenuto a seguire tutte le materie che l’educatore di Scalea propone ai suoi discepoli. Ma, prima di parlare dei metodi e dei contenuti dell’insegnamento del Caloprese, vanno precisati l’anno e il periodo di permanenza a Scalea del giovanissimo Pietro.

Nelle note biografiche del sito web ufficiale dedicato a Metastasio, si afferma che nel 1712 “il Gravina accompagna Pietro a Scalea, dal cugino renatista, perché il discepolo completi la sua formazione filosofica”[9]. La circostanza sarà confermata in seguito dallo stesso Metastasio, nella lettera  a Saverio Mattei  ( sul quale si dovrà ritornare ) del 29 maggio 1769, che è anche una inequivocabile dichiarazione del suo debito culturale nei confronti della Calabria:

 

“Non si scandalizzi per questa mia pretensione: ha essa i suoi fondamenti.

Non era straniero per lei il mio benefico, non so se più padre o maestro, Gian

Vincenzo Gravina, che con sudore meritevole di frutti più degni di lui ha pro-

curato di arricchirmi delle greche, delle latine lettere, e della romana giurisprudenza.

Non lo era il celebre di lui cugino Gregorio Caloprese, a cui egli mi consegnò

fanciullo per compir sotto la sua disciplina tutto il corso filosofico, e col quale abitai

tutto il tempo che fu creduto necessario al disegno. Dee pur valermi qualche cosa

l’aver corso dalle paterne sponde del Tevere sino alla Magna Grecia, ed aver

gustati i primi allettamenti delle scientifiche cognizioni vicino alle rinomate

sorgenti dell’antica setta[10].

 

La “pretensione” di cui qui parla Metastasio è quella di potersi considerare “nazionale” del Mattei, calabrese di Montepaone. Riconosce così di dover a due calabresi, come Gravina e Caloprese, i fondamenti della sua educazione, tanto da tenere rapporti con altri calabresi, come lo stesso Mattei, nel gradito e mai spento ricordo del tempo passato a Scalea. Ma quello che più importa in questa lettera è che il poeta confermi che a Scalea era venuto per “compir tutto il corso filosofico” e che vi rimase tutto il tempo necessario. E’ ragionevole allora pensare che seguire tutto il corso di filosofia richiedeva un tempo tale da non poter essere ridotto a soli pochi mesi, come pretendono alcuni biografi. Non aiutano in tal senso le biografie settecentesche, molto di più interessate al poeta cesareo, fulgido di gloria viennese, che al ragazzo venuto dalle rive del Tevere in quella che definisce Magna Grecia, secondo le conoscenze che di questa si hanno ai primi del Settecento.[11] Se è vero che Metastasio si trova a Scalea nell’ottobre del 1712, non per questo accettato che vi rimane almeno fino al gennaio del 1714, un lungo periodo cioè, che s’interrompe poco prima che a Roma rivesta l’abito talare nel febbraio dello stesso 1714,  prendendo gli ordini minori e assecondando in tal modo “le disposizioni del suo maestro (Gravina, n.d.a.) che intende assicurare al discepolo, divenuto abate, la possibilità di appannaggi e rendite, derivanti dall’assegnazione di qualche ufficio ecclesiastico, secondo gli usi di Santa Madre Chiesa, e con ciò la sicurezza economica e sociale”[12]. Un lungo periodo che mal s’accorda alle ipotesi biografiche che vogliono ridurre la permanenza a Scalea di Metastasio a soli pochi mesi e che invece trova giustificazione nella necessità di portare a compimento un corso completo di studi filosofici, e non solo filosofici. Si invece addirittura anticipare l’arrivo a Scalea al 1711, sulla scorta delle notizie dell’autobiografia del principe Francesco Maria Spinelli, compagno del Metastasio alla scuola del Caloprese, non revocate in dubbio dagli studiosi più recenti, che fissano la presenza a Scalea dal 1711 al 1712[13].

Quando Metastasio incomincia a frequentare la scuola di Scalea si trova di fronte un intellettuale agli antipodi di quelli conosciuti nella Roma barocca e arcadica. Secondo il principe Spinelli, il Caloprese è un uomo schivo e riservato, non interessato alla mondanità, ma alla riflessione solitaria, libera e indipendente.  E’ da poco tornato da Napoli, dove ha frequentato l’Accademia degli Investiganti, nata nel 1650 e rifondata nel 1662 dopo gli anni di crisi seguiti alla peste del 1656. Ha potuto entrare in contatto con i maggiori intellettuali del tempo, come Lucantonio Porzio, Tommaso Cornelio, Leonardo Di Capua, dai quali assimila “le proposte ‘moderne’, antiautoritarie e antidommatiche, sul piano sia della metodologia scientifica sia dell’elaborazione teorico – filosofica generale”[14]. Le sue preferenze si sono orientate verso “la componente razionalistico – mentalistica” a petto di quella “sperimentale – naturalistica”,[15] che porta meglio a definire e considerare i suoi rapporti con la cultura filosofica del tempo e, in special modo, con il cartesianesimo.

Non c’è motivo per mettere in dubbio la definizione di “grande renatista” che del Caloprese dà Giambattista Vico, a patto che si precisi di quale cartesianesimo si tratti. Vengono per questo in soccorso gli studi di Nicola Badaloni nell’Introduzione a Giambattista Vico del 1961.[16] La ricerca del Caloprese è orientata a “mostrare i molteplici legami tra corpo e anima; ciò non toglie che in ultima istanza quest’ultima si presenti come realtà di dimensione completamente diversa”[17], in correlazione con quella corrente del cartesianesimo che modifica radicalmente l’indirizzo investigante. Nella quiete di Scalea, specialmente negli anni della maturità, Caloprese s’è dedicato agli studi di eloquenza , rifacendosi alla tradizione classico – umanistica, che per lui significava affrancamento dal dogmatismo scolastico contemporaneo,  ripensamento  poi della lezione di Cartesio, “avvertendone anche i limiti che avrebbero potuto condurre tanto al razionalismo astratto quanto al pragmatismo scettico”.[18] Un’impostazione che fa del cartesianesimo di Caloprese un’interpretazione autentica e originale del pensiero del filosofo francese. “Il ricorso calopresiano al filosofo d’oltrealpe maturava, innanzitutto, nell’adesione al dualismo delle sostanze per accogliere un nuovo criterio di certezza in grado di resistere all’impostazione ‘gradualistica’ di matrice aristotelico – scolastica e alle tentazioni  dello scetticismo libertino.”[19] Un criterio funzionale alla riflessione sull’alternanza tra vizi e virtù, a seconda che prevalga la parte razionale o quella sensitiva, che la fantasia o la mente sono deputate a rappresentare con differente vigore. “Il campo di battaglia tra l’anima e i movimenti del corpo con i suoi ‘spiriti’ si trasformava in quello tutto moderno della forza della rappresentazione”[20].  Per Caloprese l’attività di per sé interiore dell’anima non esclude, ma comprende, la realtà esterna “nell’universo del proprio significare”.[21] Ciò che serve al filosofo di Scalea per introdurre il tema delle passioni, senza dubbio di derivazione cartesiana. Negli scritti letterari avrà modo di riflettere sui costumi e sui sentimenti dei personaggi, sulla gioia, sulla tristezza, sulla meraviglia, sulla virtù e sull’eroismo, rivelando non pochi momenti di differenziazione dal pensiero cartesiano, che fondano l’originalità delle sue riflessioni. “L’originalità del Caloprese sta, dunque, nell’aver assunto fino in fondo la distinzione – opposizione tra le forze della mens e quelle del corpo, teorizzando, nello stesso tempo, la possibilità di un’unione “tra i pensieri della mente, et i moti degli spiriti” che la buona poesia non può non riprodurre, perché “seguitando le passioni i moti del pensiero, l’istesso ordine de’ pensieri deono tenere nel destarsi”.[22]

Non mette conto in queste pagine proporre altre considerazioni al riguardo, per le quali tuttavia si rimanda agli studi del Lomonaco, ricostruibili anche dall’Introduzione alle Opere di Caloprese, riedite nel 350esimo anniversario della nascita, su impulso della Società di Scienze, Lettere Arti in Napoli, presso Giannini editore. E’ invece opportuno ritornare sulla definizione vichiana di “gran renatista” riferita a Caloprese, non fosse altro perché ricorre anche nei ricordi di Metastasio, anche se il poeta della Didone abbandonata non ha potuto forse cogliere i momenti di convergenza con il pensiero cartesiano e quelli di distacco, a causa della giovane età. Essenziale è comunque ricordare, sulla scorta della Vita del principe Spinelli, che il cartesianesimo di Caloprese si caratterizza “dal punto di vista di una ‘metafisica’ intesa non come rifugio o abbandono del mondo ma quale scienza dei principi primi, vera e propria via di accesso al fondamento della realtà”.[23]

Certo all’allievo venuto da Roma e a tutti i suoi compagni Caloprese propone un insegnamento della filosofia che, dopo le esperienze napoletane, viene concepito, nel metodo e nei contenuti, come superamento della cultura investigante, ma anche come proposta di una rilettura nel senso su esposto del pensiero di Descartes, che contiene un forte richiamo ai valori fondanti della “vita civile”, così come li aveva esposti nelle lezioni all’Accademia Medinaceli, pubblicate postume con il titolo Dell’origine degli Imperi.[24]  Caloprese ha opposto un netto rifiuto dell’interpretazione utilitaristica della filosofia tout court, non solo di quallea cartesiana, e si è tenuto lontano sia dal quietismo sia dal giansenismo, per il quale nutriva simpatie invece Gravina. Nella sua riflessione culturale s’è misurato con i grandi problemi filosofici del suo tempo, nel confronto con le tesi di Hobbes e Malebranche, pervenendo ad un discorso coerente intorno all’uomo, colto nella sua dimensione razionale e considerato tuttavia capace di slanci creativi, che lo liberano dalla soffocanti restrizioni del calcolo egoistico e utilitaristico. In lui, nell’invito all’ottimismo e alla fiducia nella benevolenza umana, si rinvengono i primi accenni ad un’analisi antropologica e psicologica che nella “fuga dal male” individua, in chiave antimachiavellica, le basi della fondazione di un’etica per la politica , di sapore tutto moderno.

La ricezione di Metastasio delle lezioni di Caloprese non sembra aver colto gli aspetti su accennati, se ci si riferisce alla memoria conservata di quelle giornate di studio a Scalea. In una lettera del primo aprile 1776 a Saverio Mattei,[25]rammenterà tra l’altro:

 

“ho sentita di nuovo la venerata voce dell’insigne filosofo Gregorio

Caloprese che, adattandosi, per istruirmi, alla mia debole età, mi conducea

quasi per mano tra i vortici dell’allora regnante ingegnoso Renato, di cui

egli era acerrimo assertore, ed allettava la fanciullesca mia curiosità or

dimostrandomi con la cera, quasi per gioco, come si formino fra i globetti

le particelle striate: or trattenendomi in ammirazione con le incantatrici

esperienze della Diottrica. Parmi ancora di vederlo affannato a persuadermi

che un suo cagnolino altro non fosse che un orologio: e che la trina dimensione

sia definizione sufficiente de corpi solidi: e lo veggo ancor ridere quando, dopo

avermi per lungo tempo tenuto immerso in una tetra meditazione facendomi dubitar

d’ogni cosa, s’accorse ch’io respirai a quel suo Ego cogito, ergo sum; argomento

invincibile d’una certezza che io disperava di mai più ritrovare”.[26]

 

Le lezioni del maestro, pur venerato ancora nei ricordi viennesi, appaiono all’alunno Metastasio, per la sua “debole età”, vorticose e spesso incomprensibili, tanto da scambiare il richiamo alla realtà  come una stramberia tendente alla dimostrazione che un cagnolino fosse un orologio. Riconosce però che con quel metodo Caloprese lo vuole educare al dubbio metodico, mentre “dell’allora regnante Renato” ricorda soltanto l’invincibile argomento del Cogito, ergo sum. Né d’altra parte può essere altrimenti in un alunno come Pietro, animato da una curiosità pur sempre da adolescente. Le lezioni del maestro renatista insomma si risolvono per lui in una “tetra meditazione”, che in qualche caso gli appesantisce le ali nel volo prediletto nei cieli della libera fantasia creatrice. Ma proprio questo Caloprese vuole realizzare nel suo allievo: la disciplina del pensiero, il razionale controllo dell’ispirazione, che solo l’educazione filosofica può assicurare. Ma alla scuola di Scalea non si studia solo filosofia. Il giovanissimo Pietro e i suoi compagni seguono un corso di studi completo, che realizza un modello di educazione integrale, che soprende per la sua modernità.

 

Una scuola modello di educazione integrale

3 – Sul piano metodologico la didattica del Caloprese si segnala fin dall’inizio per la sua originalità rispetto alle forme dominanti  nella pratica educativa del suo tempo. Programmi e metodi d’insegnamento sono concepiti e formulati in una consapevole visione dei problemi educativi, con il fine dichiarato di pervenire ad un tipo di formazione umana, che si eserciti su tutte le capacità del soggetto da educare, da quelle intellettive a quelle operative. Le memorie del principe Spinelli sulla scuola di Caloprese sono illuminanti al riguardo, in quanto consentono di ricostruire la giornata tipo dei discepoli del renatista di Scalea, con la distribuzione delle ore d’apprendimento, delle discipline di studio e delle attività psicomotorie, si direbbe oggi. Nell’insegnamento si concentra tutta la fatica del Caloprese, dopo il suo ritorno a Scalea. Rinuncia infatti ad esercitare la professione di medico, anche se continuerà a dedicarsi alla cura soprattutto dei bisognosi, senza mai chiedere alcun compenso. La scuola finisce “per assorbirne quasi interamente le capacità intellettuali e creative”[27], con l’intento di  respingere il precettismo e l’autoritarismo delle scuole del suo tempo, per ricorrere invece ad “un metodo graduale e conversativo”[28], che conferisca all’allievo la facoltà di essere protagonista della sua formazione, sia pure in un determinato quadro di fini e valori.

Il pensiero dominante della concezione educativa di Gregorio Caloprese è di armonizzare lo studio teorico all’attività fisica, in un costruttivo rapporto mente-corpo, che non si risolva soltanto nella ripresa dell’antico mens sana in corpore sano, ma che realizzi i principi della tradizione sperimentale e naturalistica. In tal modo l’allievo viene educato “ad impostare la sua  futura attività culturale in modo organico senza bisogno di ricorrere alla figura del ‘maestro’, come depositario assoluto della verità”.[29] Un’intuizione destinata ad essere praticata, in seguito, in un’ottica personalistica e liberale nella scuola italiana, e non solo.

Per realizzare tali fini, Caloprese scandisce la giornata dei suoi discepoli in quattro tempi ben definiti e distinti, durante i quali si studiano diverse discipline, secondo un programma di lavoro articolato e modellato sulle esigenze educative degli allievi. Gli impegni di studio cambiano dal mattino al pomeriggio, in una sorta di full time che sembra prefigurare l’organizzazione del college moderno.

La mattina si comincia con la lettura e il commento di un passo della Scrittura Sacra, che Caloprese sostiene con riflessioni di carattere letterario e morale.  E’ senza dubbio saldo il riferimento al metodo dantesco dell’interpretazione delle scritture bibliche, con l’integrazione del confronto con i testi classici del pensiero religioso. Un’opera di riferimento costante sono gli Essais de morale di Pierre Nicole (1625-1695),  il focoso giansenista attestato su posizioni antiquietiste e avversario irriducibile del protestantesimo. L’esegesi calopresiana è accompagnata costantemente dalla preghiera a Dio, destinata “ad illuminare la mente contro le false dottrine, ripugnanti alla Fede”.[30] E la lettura dei testi sacri raddoppia di domenica.

La seconda parte della mattinata viene dedicata allo studio della matematica e, dopo la pausa pranzo, ci si applica prima alla filosofia e poi all’eloquenza. Gli allievi sono sempre a diretto contatto con il maestro, che li segue in ogni momento delle loro fatiche, fin dall’inizio di ciascuna giornata.  Lo studio inizia dopo due ore di attività ginnico-sportiva, durante le quali si praticano la scherma e l’equitazione, secondo un modulo sperimentato fin dall’antichità. E con l’attività fisica si conclude la giornata; di pomeriggio, infatti, un paio d’ore prima del tramonto, ci si addestra nel nuoto, nello specchio di mare dell’Ainella,  e in altri esercizi, diversi da quelli del mattino. Il Caloprese è attentissimo a dosare gli impegni dei suoi allievi, per non affaticarne la mente e il corpo e ottenere così il massimo dei risultati con sforzi adeguati all’età e al tipo di studi da affrontare. E provvede anche a far divertire gli alunni, facendoli giocare alla pilotta, quando piove.

Informazioni dettagliate sulla scuola di Caloprese si ricavano dall’autobiografia dello Spinelli. Il principe di Scalea ci fa sapere che Caloprese preferisce il metodo analitico a quello scolastico e che le lezioni non si scrivono, ma si spiega un autore, sia nell’insegnamento della filosofia sia nello studio dell’eloquenza.[31] “Questa fondamentale discriminante” osserva Quondam “risulta anche nella precisa elencazione dei testi impiegati nelle lezioni, che vede la preminenza di Cartesio, accanto ai testi aristotelici ‘puri’, cioè liberati dalla deviante mediazione dei commenti scolastici”[32]; una discriminante che in fondo è di tutta la corrente investigante, sulle cui premesse si basa Caloprese stesso nelle sue opere.

Cartesio rimane l’autore al quale riferire le riflessioni di Caloprese, che costituiscono il corpus delle sue convinzioni metafisiche e morali, ma la filosofia del francese è accompagnata dalla lettura di autori come Lucrezio e Bacone, “che vale come emblematico riconoscimento dela complessità della posizione teorica calopresiana tra sperimentalismo e atomismo, da una parte, e razionalismo e mentalismo, dall’altra”.[33] Ma i contenuti dell’insegnamento calopresiano impongono un costante confronto con Aristotele e l’aristotelismo, di cui troveremo gli echi nel Metastasio maturo. Il giovinetto vive la sua prima educazione culturale in Calabria, per lui risonante di voci della Magna Grecia sia nella letteratura che nella filosofia, ascolta “la venerata voce del Caloprese lunghe spiagge della Scalea”[34]  poi frequenta a Napoli con Gravina ambienti antivaticani, ma nell’Estratto dell’arte poetica di Aristotele e considerazioni su la medesima, ultimato nel 1773, dopo quarant’anni dal concepimento, dichiarerà tutta la sua ammirazione per il filosofo di Stagira, che Caloprese invece, stando alla testimonianza di Paolo Mattia Doria, ripresa da Attilio Pepe, tratta “con riso e con disprezzo”.[35]

Non è ora fuori luogo rilevare che la testimonianza dello Spinelli, sul modo di condurre le lezioni del Caloprese, mal s’accorda con quella dello stesso Metastasio. Infatti mentre il principe sostiene che lezioni non vengono scritte, ma che si legge un autore e lo si commenta, il poeta romano, a proposito della scuola di Scalea, ricorda il maestro presentarsi ai suoi allievi con “vari suoi pensieri scritti in fogli volanti come quelli della Sibilla”.[36] Il paragonare gli appunti di Caloprese agli oracoli della Sibilla cumana su foglie d’alloro, se è da un lato conferma dell’insofferenza, tutta adolescenziale, con cui Metastasio vive quel periodo di “tetre mediazioni”, dall’altro prova che il maestro preferisce esporsi “alla glossa, alla confutazione, alla correzione, all’esercitazione, se si vuole,  persino ipercritica in tanti casi, ma non alla congruità interpretativa e alla completezza espositiva”.[37] Si può forse affermare che l’alunno Spinelli recepisce le lezioni del Caloprese con una predisposizione agli studi filosofici che il suo compagno di Roma non possiede, interessato com’è più alla poesia che alla filosofia. Del resto il testo della lettera da Vienna a Giuseppe Aurelio Morano di Napoli è inequivocabile:

Delle opere di questo grand’uomo  non so che ne sia stata mai alcuna terminata. Io ho sentito

lui i principi d’una confutazione di Spinosa, alcune lezioni accademiche e vari suoi pensieri

scritti in fogli volanti come quelli della Sibilla.[38]

 

E anche  nell’altra lettera al Mattei, in cui parla del corso di filosofia seguito per intero, non s’avverte entusiasmo e condivisione per quegli studi. Un interesse che, come è stato già evidenziato, si manifesterà nel Metastasio della maturità, al quale non saranno di certo inutili nella costruzione della sua poetica le riflessioni di Caloprese sulla “favola rappresentativa”. Solo che il maestro consegna ai suoi discepoli idee sull’arte e sulla letteratura da sviluppare, considerando questo un compito “agevole e di poco impegno”, senza sospettare che possa “non poco tormentare i suoi scolari proprio a causa dell’ermeticità di certe formulazioni …”[39]. Ma è forse questo il senso della sua scuola, affidare a ciascun allievo la pesante responsabilità della propria formazione, senza avere necessità di un maestro, unico e assoluto detentore della verità. E se così è, non è dato ravvisare alcuna contraddizione tra quanto racconta Spinelli e quanto riferisce Metastasio: gli appunti che Caloprese distribuisce ai suoi ragazzi sono il punto di partenza di studi e riflessioni, “sufficiente a far sì ch’altri possa chiaramente e con piccolissimo studio tutto il rimaso accorre”, come scrive già nel 1696 al Caracciolo sulla favola rappresentativa.[40] Cinque anni dopo, tornato a Scalea, sperimenta nella sua scuola questo metodo, con esiti senz’altro positivi se si tiene conto di quanto i suoi allievi realizzeranno nella loro vita culturale e professionale. I suoi allievi appartengono alle migliori famiglie meridionali. Tra i banchi della sua scuola , oltre allo stesso cugino Gian Vincenzo Gravina con il fratello Francesco Antonio e al principe Spinelli, siedono Nicolò Cirillo, Alessandro Riccardi, Saverio Pansuti, ma anche Paolo Mattia Doria[41]. Con questi, e altri ancora, Metastasio vive le sue intense giornate di studio a Scalea, durante le quali non di rado trovano svago sulle spiagge del paese, in un paesaggio incorniciato dai monti della Catena Costiera, che sovrastano una pianura verde di cedriere e uliveti.

Cirillo diventerà un valente medico, dedito con eccellenti risultati allo studio della fisica; Riccardi si applicherà con grande passione alla metafisica, alle scienze matematiche e allo studio della lingua italiana; Saverio Pansuti preferirà la poesia dialettale.

Caloprese propone ai suoi allievi un programma di studio, che non tralascia nemmeno le lingue moderne. Sul piano letterario sono i classici i testi di maggiore frequentazione, ma non trascura le lingue. Un passo dell’Autobiografia di Giambattista Vico, osserva Alfonso Mirto, potrebbe indurre a pensare che Caloprese disapprovi “gli studi delle lingue, degli oratori, degli storici e de’ poeti, e ponendo su solamente la sua metafisica, fisica e matematica, riduce la letteratura al sapere degli arabi”[42], ma dalle memorie dello Spinelli si viene a sapere che fa leggere, oltre a Lucrezio, Cicerone, Orazio, Tibullo, Catullo e Porperzio, senza trascurare Sallustio, Tito Livio, Plauto e Terenzio, mentre si serve della traduzione di Gravina di alcune opere dal francese, come il Traité de la Comedie et des spectacles e il Traité de la comedie, la prima del principe di Conti Armando di Borbone e la seconda di Pierre Nicole, di cui fa studiare, come s’è visto, anche i saggi morali. Si leggono anche il Bossuet e il Baronio, “sia come difesa dell’ortodossia che come difesa personale in un momento tragico per il libero filosofare nel Viceregno napoletano”, negli anni in cui Caloprese tenta la Confutazione alla filosofia di Spinosa, per evitare un’eventuale accusa di ateismo.[43]  

In questa scuola, con tanto maestro e tali compagni Metastasio si forma all’arte e alla poesia. E’ uno studio rigoroso e impegnativo, ma non proprio matto e disperatissimo, come del resto non è nelle corde del giovinetto romano, che a Scalea conosce anche l’amore.

 

Il primo amore del poeta  a Scalea

    4 – I biografi di Metastasio, a incominciare da quelli del Settecento, a proposito degli amori del poeta si concentrano sulle tre Marianne, dame di alto lignaggio, che hanno allietato la sua vita. Ignorano però che a Scalea, appena tredicenne, conosce le prime pene d’amore. Non s’innamora di una giovinetta, ma di una giovane vedova di casa Del Buono, con la cui famiglia Metastasio è facilitato ad allacciare rapporti, per essere uno di loro, Vincenzo, alunno anch’egli di Caloprese. Ed è merito di un discendente di questa famiglia, averne ricostruito le memorie e aver così potuto riportare l’episodio dell’innamoramento di Metastasio per la nutrice di casa del Buono.[44] Una donna rimasta senza nome e di cui si sa tuttora poco, e il poco che si conosce si deve al canonico Viggiani, traduttore dell’Ars poetica di Orazio nel 1815. Il canonico riferisce l’innamoramento del Metastasio a Scalea, con circostanze e riferimenti, ripresi in seguito da Vincenzo Pagano, nel 1882, e da un  discendente dei Del Buono ai giorni nostri.

Stando a queste informazioni, la ragazza, da poco vedova, è stata assunta dai del Buono come nutrice. Pertanto deve essere di Scalea ed è tenuta in grande considerazione nella famiglia alla quale presta la sua opera, tanto è vero che, come vedremo, è presente alla pari nelle occasioni ufficiali, come il ricevimento di ospiti o le visite di commiato.

Metastasio, dalla casa del Caloprese, in cui alloggia,  non può scorgere la giovane vedova, e questo lascia pensare che l’abitazione dei Del Buono non sia in ogni caso molto distante. E allora si reca su uno scoglio di fronte al palazzo Del Buono, dal quale spera di vedere la ragazza di cui si è invaghito. Lo scoglio è detto di San Nicola, vicinissimo alla Chiesa che porta lo stesso nome, San Nicola in Plateis (oggi è scomparso perché “scioccamente abbattuto per il riempimento di una strada”[45] ). E’ un amore che si nutre di sguardi e di sospiri, in un ambiente carezzato dalla brezza marina e dal fragare discreto delle onde del mare. Pare che a lei, secondo Pagano, siano dedicati i teneri versi della Cantata XV, dove ricorrono espressioni topiche della poesia erotica, con metafore come quella del fuoco che arde sotto la cenere e che un lieve soffio di vento basta a suscitare. Dell’innamoramento del ragazzo giunge notizie anche al Caloprese, che stenta a credere che la fiamma d’amore possa aver lambito il suo ancora imberbe allievo. Dei sospiri e dei sogni del giovanissimo innamorato si hanno sicuramente gli echi nei tanti versi d’amore, che ha scritto nei suoi melodrammi e nelle sue canzonette. E c’è da credere che, oltre alle tre Marianne, la vedovella di Scalea abbia consentito al futuro poeta cesareo di conoscere la dolce e inebriante inquietudine dei primi palpiti amorosi.

Ma la dimora di Metastasio a Scalea volge ormai al termine e il giovinetto deve far ritorno a Roma, con il suo primo maestro, con Gravina. Ed è proprio lui ad accompagnarlo nelle visite di congedo, alle quali partecipa anche Caloprese. La visita di commiato a casa Del Buono sarà allora la prima e l’unica volta che Pietro potrà vedere da vicino l’oggetto del suo amore, stando al racconto del Pagano:

“Il giorno innanzi alla partenza, il Gravina e il Caloprese col Metastasio,

girando per le case de’ Gentiluomini, a fine di prendere commiato, andarono

a casa Del Buono, ed ivi ed altri si trovarono in una stessa stanza. Comparisce

la vedova amata e, volgendosi al giovinetto innamorato, gli dice piangendo la

pena che sentiva della sua partenza: Sei venuto fin qui da Roma per rendermi

                                        infelice? Egli senza turbarsi: Ah! Non l’avessi mai veduta! – le disse con grande

trasporto. Il Gravina poi il riprese leggermente.[46]

 

Non si ha notizie della reazione del Caloprese, ma non è difficile immaginarne la sorpresa. Ma tutto finisce così, un amore appena sbocciato, forse corrisposto, ma niente di più. La vita riserverà a Metastasio ben altri amori, in qualche caso, come a Scalea, con donne d’età più grande della sua..

Conosce infatti a Napoli nel 1719 la sua prima Marianna, la celebre Romanina, al secolo Bulgarelli, una bravissima cantante lirica, di dodici anni più grande di lui. Sarà lei a favorire la carriera del poeta melodrammatica, con l’indimenticabile interpretazione della Didone abbandonata, nel 1724 e sarà la Romanina a introdurlo nell’ambiente dei musicisti, dove farà conoscenza di Scarlatti e Porpora, per citarne solo alcuni, e del famoso cantante Carlo Broschi, detto il Farinello, con il quale allaccerà legami duraturi di fraterna amicizia. E la Bulgarelli gli farà conoscere anche un’altra Marianna, la Pignatelli, che favorirà la sua nomina a poeta cesareo, alla corte di Vienna, in sostituzione di Apostolo Zeno. Da allora, dal 1730, non farà più ritorno in Italia, rimanendo alla corte imperiale per ben cinquantadue anni. Alla morte della Bulgarelli, contessa di Althann, nel 1755, incontrerà ancora una Marianna, la terza e ultima, questa volta molto più giovane di lui. Si tratta della figlia di Nicolò Martinez, cerimoniere della nunziatura apostoilica, nella cui casa Metastasio abiterà per qualche tempo. Avrà come segretario Giuseppe Martinez, fratello di Marianna, alla quale presenterà come maestro di canto e di piano forte nientemeno che Haydin, autore principe di sinfonie memorabili. Non si hanno notizia di altri amori metastasiani, fino alla morte del poeta, nel 1782, quando verrà seppellito nella cripta della chiesa di San Michele.

Non farà mai cenno, nel suo vastissimo epistolario, all’amore di Scalea, un’esperienza evidentemente rimossa, come spesso accade per gli innamoramenti adolescenziali, o superata con relazioni di ben altro significato nella vita di un artista e di un poeta. E tuttavia è innegabile che già nella tenera e mai confessata passione amorosa scaleota si rivelano in nuce quei sentimenti delicati e sinceri di sui saranno portatori soprattutto le eroine dei suoi drammi: sentimenti tenui ma non leggeri, desideri nutriti di discrezione e ritegno, che solo nella poesia trovano alimento.

Certo è che Metastasio farà innamorare di sé donne, come le tre Marianne, di indubbio fascino e di altrettanto indubbie qualità culturali. Una biografia anonima del 1786 così lo descrive:

 

“Aveva lineamenti di viso assai belli, occhi neri penetranti vivissimi, pieni

di dolcezza, un naso ben formato, bocca piuttosto grande, ma ridente e ben

conservata, gote vermiglie e floride, il colorito bianco misto ad una assai

vivo porporino, che terminava di rendere gradevolissima la sua fisionomia,

avendo conservata queste fattezze fino a tarda età”.[47]

 

Nessuna meraviglia allora se la giovane vedova di Scalea, vedendolo allontanarsi da sé, gli rivolge sguardi struggenti di nostalgia per un amore che avrebbe potuto essere a lei di consolazione e al ragazzo avrebbe potuto regalare ebbrezze ancora ignote.

 

 

 

 

Influenza del modello metastasiano nella cultura calabrese

5 – Metastasio nel febbraio del 1714 è già a Roma, per cui è nata l’ipotesi che a Scalea abbia soggiornato fino a tutto gennaio di quest’anno, dal suo arrivo posto nell’ottobre  del 1712.[48] Non si ravvisano ragioni plausibili, com’è stato già detto, per accettare questa ipotesi, mentre è certo che l’anno dopo, nel mese di marzo, il poeta e Gravina sono di nuovo in viaggio verso sud, probabilmente per venire a far visita a Caloprese, ormai gravemente ammalato. Anzi si vuole che arriveranno a Scalea, quando il vecchio maestro è già scomparso. Metastasio si ferma a Napoli, prima di rientrare a Roma e qui pubblicherà nel 1717 la sua prima raccolta di poesie, dedicata ad Aurelia Gambacorta d’Este, il cui marito Francesco ha partecipato alla congiura antispagnola del 1701. “Solo a Napoli, vicereame dell’imperatore austriaco, poteva essere pubblicata la prima raccolta di poesie del discepolo del filoimperiale Gravina, dedicata alla nobildonna, che, oltre alle scelte di tutta la famiglia verso gli Asburgo, per parte di madre, discendeva dalla famiglia di Torquato Tasso, il poeta fin da allora più amato dal giovane Metastasio”.[49]

I rapporti di Metastasio con Scalea e la Calabria, rimarranno un punto fermo nella vita del poeta. Non vi farà mai più ritorno, ma ritorneranno nella sua memoria i giorni felici vissuti a contatto con maestri come Gravina e Caloprese, i colori del mar Tirreno, gli echi di Magna Grecia che s’illudeva di sentire, in un’area appena lambita da quella civiltà. Nella lettera al Mattei, riportata all’inizio, chiaramente confessa di sentirsi calabrese nel cuore, fino a chiedere di essere considerato “nazionale” del suo corrispondente di Monteleone. La presenza di quello che sarà il suo modello poetico nella musica melodrammatica in Calabria specialmente è la spia dei profondi legami che s’instaurano fra Metastasio e gli intellettuali calabresi nella seconda metà del Settecento, a distanza di tanti anni dalla sua partenza da Scalea.

Saverio Mattei è quello che maggiormente ha fatto ricorso all’ex allievo di Caloprese nelle sue attività istituzionali in campo musicale a Napoli. Avvocato e giurista, letterato erudito e musicologo d’eccezione, si è reso tra l’altro benemerito per la fondazione dell’Archivio Filarmonico e per l’azione svolta al conservatorio della Pietà dei Turchini. “Nel Metastasio si riassume, per il Mattei, tutto il meglio dell’esperienza poetica e musicale del secolo, che con il poeta cesareo avrebbe realizzato una felice continuità con il teatro e la musica greca”.[50] A dire il vero Metastasio non condivide sempre le posizioni del Mattei, che da canto suo insiste nella ricerca dei motivi della continuità fra musica antica e musica moderna che, a suo parere, vede lo stesso Metastasio protagonista. Nel saggio intitolato La filosofia della musica[51] auspica la ripresa della funzione originaria della musica del teatro greco e della poesia biblica, una “musica filosofica”, vero e proprio esercizio spirituale. Per questo “il modello metastasiano si offre spontaneamente come immagine di un razionalismo moderato che non si limita ad affermare la preminenza della parola poetica, ma cerca una integrazione esecutiva tra parola e musica, pur lasciando separati i suoli del poeta e del musicista”.[52]

E’ questo un momento di grande fermento innovativo nella musica e ne teatro e il Mattei tra le riforme di Gluck e l’ormai consolidato modello di Metastasio, preferisce tenersi dalla parte di un classicismo che sappia relazionarsi con il presente. Ribadisce pertanto “la piena continuità tra tragedia greca e contemporaneo dramma per musica, ponendosi nel solco degli inventori musicali del ‘recitar cantando’ e ritrovando nel Metastasio la manifestazione più alta di questa continuità”.[53]

Le relazioni epistolari tra Mattei e Metastasio richiederebbero ben altri approfondimenti e ricerche, ma qui importa riprendere la lettera dell’aprile 1776:

Oh di quante e care ridenti idee, amatissimo mio signor don Saverio,

mi avete risvegliata la viva reminiscenza, facendomi riandar col pensiero

il felice tempo che fra la puerizia e l’adolescenza ho nella Magna Grecia

non  meno utilmente che lietamente passati! Ho riveduti come presenti

tutti quelli oggetti che tanto colà mi dilettarono. Ho abitata di bel nuovo

la cameretta dove il prossimo fiotto marino lusingò per molti mesi

soavemente i miei sonni: ho scorse in barca con la fantasia le spiagge

vicine della Scalea: mi sono tornati in mente i nomi e gli aspetti di

Cirella, di Belvedere, del Cetraro e di Paola…

 

La ripresa della missiva è utile a rimarcare che per Metastasio e dintorni sono in ogni caso Magna Grecia. In effetti siamo ai margini del mondo greco- occidentale in Calabria. Sulle rive del Tirreno sono arrivati i greci di Sibari, precisamente dopo la sconfitta subita ad opera di Crotone nel 510 a.C., seguendo un itinerario già tracciato in pregresse relazioni commerciali. Erodono stesso dà notizie di tre subcolonie sibarite sul Tirreno, e cioè di Cirella, Scidro e Laos.  Metastasio considera tutto Magna Grecia, come quasi tutti gli intellettuali del suo tempo considerano in genere il Meridione, ma il riferimento serve anche a ricordare che per il giovanissimo poeta romano risiedere per qualche tempo in Calabria è stata un’esperienza che ha rafforzato in lui i legami con il mondo classico, specialmente con il teatro greco, la cui tradizione in Calabria è ancora viva, come prova anche la corrispondenza con il Mattei sull’argomento. Gli struggenti toni nostalgici della lettera, nel poeta ormai maturo, rievoca “il felice tempo” di Scalea, la primavera della sua vita, allietata dal sole della Calabria. Ma Metastasio in seguito mostrerà di gradire anche l’inverno viennese, quando in una lettera ad Anna Francesca Pignatelli di Belmonte, descriverà un paesaggio tutt’altro che arcadico, come si potrebbe definire quello di Scalea e dei paesi vicini:

Tutto è ricoperto di neve: Il fiume, non che i laghi e gli stagni, si sono in tratto

saldissimamente gelati…Con tutto questo improvviso e stravagantissimo

cambiamento della natura io, che non era nato per la strepitosa magnificenza delle

Corti ma per l’oziosa tranquillità d’Arcadia, ritrovo qui tuttavia, a dispetto degli

allettamenti cittadini moltissimo di che compiacermi.[54]

 

E descrive le sue passeggiate per i boschi viennesi, dove si compiace di convincersi “che al pari delle altre stagioni abbia l’inverno , ancora i suoi comodi, le sue bellezze e i suoi vantaggi”.[55]

Metastasio è ormai poeta cesareo e felice, all’apice del successo in Europa, e vive l’ultima stagione della sua vita in una nostalgia senza rimpianti, nella quale significativo spazio trova la sua indimenticata permanenza a Scalea.

In Calabria, dove il poeta ha ricevuto la sua prima educazione letteraria,  viene sempre ricordato e riguardato come modello da imitare. “Sulla base di questo legame ‘iniziale’ tra Metastasio e la Calabria si potrebbe seguire l’ondata di ritorno con cui il modello della poesia di Metastasio agisce sui diversi tentativi poetici che si svolgono in Calabria, o sull’interesse che al melodramma rivolsero vari personaggi di origine calabrese ( e si potrebbe arrivare fino all’attività di veri e propri musicisti di origine calabrese, come Francesco Milano Spinelli di S. Giorgio, che tra l’altro musicò azioni sacre del Metastasio)”.[56]

Inevitabile che venga considerato espressione, anzi la più alta espressione, della cultura della Magna Grecia, non fosse altro per i suoi ben noti rapporti con il Gravina, più che con Caloprese. E’ quello che fa anche Michele Torcia di Amato (1736 – 1808 ), quando scrive l’Elogio di Metastasio poeta cesareo, pubblicato a Napoli nel 1772 e ideato tra Londra e Parigi, tappe dei tanti viaggi diplomatici del suo autore per conto di Bernardo Tanucci.

Torcia saluta nel Metastasio il poeta capace di creare un nuovo modello di poesia, sulla base dell’insegnamento di Gravina, cui s’accompagna il suo talento naturale, in un panorama culturale italiano di fine Seicento dominato dal marinismo e dall’oppressione dell’Accademia della Crusca. Per l’intellettuale calabrese,  Metastasio è “l’inventore dell’opera moderna, il ristoratore dell’antico teatro, il padre delle muse del nostro secolo”.[57]  Rileva Ferroni, a proposito dell’interpretazione di Torchia: “La classicità dell’opera metastasiana veniva ricondotta ad un curioso tramite tra ingegno greco, ingegno italiano e ingegno tedesco, giustificato dalla stessa funzione ufficiale dell’autore, poeta cesareo a Vienna”.[58] Per Torchia poi Metastasio è il “Raffaello dei poeti”,  a causa degli incomparabili effetti pittorici dei suoi versi, nei quali ricorre il ricordo delle “paterne sponde del Tevere, Napoli, la città del bel canto, l’azzurro cielo di Magna Grecia” certo, ma nei “luminosi scenari di boschi e di marine ridenti” è viva la memoria di tutto il tempo passato a Scalea, tra una lezione di Caloprese, una passeggiata sulla spiaggia e i primi palpiti d’amore.

Non ritornerà più a Scalea, Metastasio, ma con la Calabria il legame non s’interrompe, anche se per motivi di tutt’altra natura. A Vienna già da tre anni, infatti, si vedrà offrire da Carlo VI la percettoria della provincia di Cosenza, uno di quegli uffici “affidati a persone benemerite e senza obbligo di residenza”.[59] Circostanza questa che farà pensare persino ad un soggiorno del poeta nella città dei Bruzi: ipotesi che non trova conforto nelle numerose biografie del poeta. Vero è invece che quell’ufficio sarà tolto a Metastasio, dopo nemmeno un anno, con l’arrivo degli Spagnoli a Napoli, “con la perdita, per giunta, a sua stessa amara confessione, di ben 800 e più ducati di spedizioni”.[60] I tentativi di recuperare quanto perduto saranno tutti inutili; penserà pure a far ritorno a Napoli per sistemare la faccenda, ma la difficoltà del viaggio e l’età avanzata non glie lo consentiranno. Inoltre gli impegni di corte non gli daranno tregua.  Per questo accetterà il fatto compiuto e si rassegnerà a pensare all’Italia come alla patria lontana e ormai non più raggiungibile.

 

“L’Italia, anche se lontana, è con me”

 

6 – Così dice Metastasio al Da Ponte, nel riceverlo in visita a Vienna, aggiungendo: “E solo pensando ogni anno di rivederla l’anno venturo, io ho potuto campare qui mezzo secolo”.[61] Ma il ritorno a Roma o a Napoli rimarrà uno struggente e inappagato desiderio, un sogno e nulla più, proprio com’è nel destino di chi per tutta la vita altro non ha fatto che inventare favole e sogni, come confessa nel celebre sonetto del 1733, Sogni e favole io fingo. Ma non sono invenzioni gratuite e arbitrarie, in quanto hanno la funzione di risvegliare sogni sempre vivi e, per così dire, in agguato nel profondo dell’animo. Nelle rimembranze metastasiane del periodo della sua prima formazione letteraria giocano un ruolo fondamentale le acquisizioni delle teorie poetiche calopresiane, senza dubbio più persistenti delle lezioni cartesiane. Nelle lettere coi i corrispondenti calabresi, come s’è visto, Metastasio ripercorre le ore di studio alla scuola di Caloprese a Scalea, ma in tutta la sua opera la lezione del maestro affiora in un più occasioni. Per questo quelle lettere vanno integrate, nel senso che Caloprese non solo ha impartito ai suoi allievi nozioni teoriche, ma ha dato anche l’esempio nella sua produzione poetica. Non sono molte le poesie del Caloprese (sette sonetti e sei ottave in tutto, nemmeno raccolte in un’unica opera, ma disseminate in varie raccolte napoletane del Settecento) e tuttavia hanno provocato pareri critici di gran lunga più numerosi di quanto lo stesso autore si sarebbe aspettato. Si tratta di componimenti d’occasione, così frequenti agli inizi del Settecento a Napoli su diversi momenti della vita di corte, dall’arrivo del viceré a Napoli alla guarigione del re di Spagna, dal ritratto dell’imperatore Carlo V a quello di Filippo II e via dicendo. “Certo, nonostante la tenuità dei soggetti, le poesie del Nostro” afferma il Cotugno “sono di squisita fattura, semplici d’intreccio, chiare, scorrevoli e pure nella locuzione. In esse, più che la imitazione del Casa, si sente il gusto raffinato dallo studio degli ottimi esemplari, la spontaneità della ispirazione avvivata dalla fantasia poetica e manifestata con forme d’arte e di bellezza veramente notevoli”. [62] Che sia possibile individuare qualche luogo della poesia del Metastasio in cui avvertire l’eco calopresiana, lo dimostra Attilio Pepe, quando mette a confronto la celebre arietta Dovunque il guardo io giro con l’ultimo sonetto del Caloprese, Prendi in tua scorta omai celeste luce. Che cosa avrebbe detto, si chiede il Pepe, Caloprese nel leggere questa arietta del suo discepolo, “nella quale si nota lo stesso pensiero che anima il sonetto del maestro ed espresso quasi con le stesse parole?”.[63] Un’eco che s’avverte ancora in un’altra arietta, Se Dio veder tu vuoi, dove Metastasio “dal Dio di Cartesio passa al Dio di Spinoza” e in cui si nota “un certo sentimentalismo preromantico”, ricorrente specie nei componimenti giovanili, ricche di immagini di mare, stelle, chiari di luna, rosee aurore.[64]

E non solo Caloprese poeta è presente nelle rime del Metastasio, ma anche Gravina. Nel racconto della sua visita al poeta, a Vienna nel 1753, Giacomo Casanova riferisce di essere rimasto a parlare con lui per un’ora e di essere stato colpito dalla modestia del poeta cesareo, che però scompare ben presto, sol che prenda a parlare della sua poesia, “declamandone le bellezze”.[65] Il celebre libertino gli parla anche di Gravina e allora Metastasio gli recita alcune stanze composte dopo la morte del suo protettore nel 1718. Durante lettura versa “qualche lagrima di tenerezza per la dolcezza della sua poesia”, per domandarsi infine:”Ditemi il vero: si poteva dir meglio?”.[66] D’altra parte della devozione del Metastasio al Gravina s’è già detto, ma è significativo che a distanza di tanti anni ne pianga ancora la scomparsa nel ricordo di quanto l’intellettuale calabrese ha fatto per lui, portandolo a studiare a Scalea e lasciandolo in seguito suo erede.

Ma ormai l’alunno di Caloprese è un poeta affermato, lodato e osannato, ma anche contestato e duramente criticato, come capita a tutti i grandi artisti. Non piace, per esempio, ad Alfieri, quando lo incontra nel 1769 e lo vede genuflettersi al cospetto di Maria Teresa imperatrice, “con una faccia sì servilmente lieta e adulatoria” e “con una Musa appigionata o venduta all’autorità despotica  da me sì caldamente aborrita”.[67] Altri invece ricorderanno i grandi meriti del Metastasio, dal Goldoni al Verri, dal Monti a Voltaire. E lo stesso Leopardi lo indicherà come l’unico poeta del suo tempo degno di questo nome dopo il Tasso, mentre  De Sanctis  parlerà di lui come “artista originale e geniale, l’artista indimenticabile di quella società”.[68]  Per non parlare poi della rifioritura delle opere del Metastasio registrata in tutta Europa nel terzo centenario della nascita, nel 1998.

Quello che Metastasio rappresenta nella letteratura e nella musica lirica non è compito  naturalmente di questo scritto evidenziare, avendo invece il solo scopo di rimarcare ancora una volta il profondo legame della sua poesia e della sua arte con Scalea, che l’ha ospitato giovanissimo nel difficile periodo della sua crescita culturale e umana.

Enrico Esposito

 

Sulla prima di copertina:

Da Scalea alla conquista della fama in tutta Europa

E qui conobbe anche l’amore

 

Sull’ultima di copertina:

Nessun tenero sentimento fu mai assente da quell’anima sensibile” (Stendhal, 1814)

 

Voi avete vestita di vaghe spoglie la più severa filosofia” (Goldoni a Metastasio)

 



[1] Pasquino Crupi, Storia della letteratura calabrese. Autori e testi,  Cosenza, Periferia, II, p. 153; cfr anche le note biografiche in

[2] Pasquino Crupi, Storia tascabile della letteratura calabrese, Cosenza, Pellegrini, 1977, p. 30

[3] Antonio Piromalli, La letteratura calabrese, Napoli, Guida, 1977, p. 122

[4] Antonio Priromalli, op. cit., p.123; cfr anche Idem, La letteratura calabrese, Cosenza, Pellegrini, 2 voll., 1996, pp. 196 e sgg.

[5] Antonio Piromalli, op. loc. cit.

[6] www. pietrometastasio.com., p. 4/7 (il corsivo è mio)

[7] Luigi Marsico, Pagine di storia e di letteratura calabrese, Cosenza, Pellegrini, 1988, p. 496

[8] Luigi Marsico, op. cit., p.497

[9] www. pietrometastasio.com:, p. 5/7

[10]Pietro Metastasio, Tutte le opere, Milano, Mondatori, 1943-54, IV, pp. 744.745

[11] Anonimo, Vita del signor abate Pietro Metastasio poeta cesareo, aggiuntovi le massime e sentenze estratte dalle sue opere, Roma, 1786, in Pietro Metastasio, Opere scelte, con introduzione di G. Natali, Milano, Vallardi, 1934, p.XVI; Saverio Mattei, Memorie per servire alla vita del Metastasio ed elogio di N:Jommelli, Napoli, Colle, 1785, ristampata anastaticamente a Bologna, Forni, mel 1987. Citarne poi altre…

[12] www. pietrometastasio.com, loc.cit.

[13] Vita e studi di Francesco Maria Spinelli principe della Scalea scritta da lui medesimo in una Lettera, in Raccolta di puscoli scientifici e filosofici, Venezia, 1753, t. 49, pp. 463 – 524; Attilio Pepe, L’estetica del Gravina (con recensione di Benedetto Croce9 e altri scritti, Napoli, D’Agostino,1955, p. 58

[14] Amedeo Quondam, Caloprese Gregorio, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto Enciclopedia Treccani, Roma, 1973, XVI, pp. 801

[15] ibidem

[16] Milano, Feltrinelli, pp. 269 e sgg.

[17] Nicola Badaloni, Introduzione a Giambattista Vico, cit., p. 269

[18] Fabrizio Lomonaco,  Introduzione, in Gregorio Caloprese – Opere,a cura di Fabrizio Lo monaco e Alfonso Mirto,  Società Nazionale di Scienze Lettere e Arti in Napoli, Giannini ed., 2004, p. 10

[19] ibidem

[20] ibidem

[21] Fabrizio Lomonaco, Introduzione, cit., p. 12

[22] Fabrizio Lomonaco, op. cit., p. 19

[23] Fabrizio Lomonaco, op. cit., p. 21

[24] E’ il testo più visitato del Caloprese, ripreso in studi particolari da Silvio Suppa, L’Accademia di Medinacoeli fra tradizione investigante e nuova scienza civile, Napoli, Istituto italiano per gli Studi Storici, 1971, da Michele Rak, in Lezioni dell’Accademia di Palazzo del duca di Medinaceli, Napoli, Istituto italiano per gli studi filosofici, 2000, da Enrico Nuzzo, Verso la “Vita civile”. Antropologia e politica nelle Lezioni accademiche di Gregorio Caloprese e Paolo Mattia Doria, Napoli, Guida, 1984 e da Alfonso Mirto in Gregorio Caloprese, Dell’Origine degli Imperi- Un’etica per la politica – con versione in italiano moderno di Enrico Esposito, Milano, Salviati, 2002.

[25] Sulla data di questa lettera vedi Giulio Ferroni, La cultura calabrese e il modello metastasiano: Michele Torcia e Saverio Mattei, in Settecento Calabrese, a cura di M. De Bonis, P. Falco, M.F. Minervino, Cosenza, Edizioni Periferia, 1985, p. 114n

[26] Pietro Metastasio, Opere, cit., V, p. 382

[27] Amedeo Quondam, op.cit., p. 802

[28] ibidem

[29] ibidem

[30] Giovan Battista Gerini, Scrittori pedagogici italiani, III, Torino, Paravia, 1900, p. 225

[31] Francesco Maria Spinelli, op. cit., p. 476: “Le lezioni non si scrivevano, ma si spiegava un autore. Non s’impiegavano, massimamente nella filosofia e nell’eloquenza, autori che si servissero del metodo scolastico, ma quei che adoperavano l’analitico”.

[32] Amedeo Quondam, op. loc. cit.

[33] ibidem

[34] Attilio Pepe, La poesia del Caloprese nella cultura napoletana del suo tempo, in “Calabria Mobilissima”, anno IX, 1955, nn. 26-27, p. 75, poi in L’estetica del Gravina e del Caloprese e altri scritti, Napoli, D’Agostino, 1911, pp. 47-57

[35] ibidem; ma forse è appena il caso di rilevare che l’opposizione del Caloprese è piuttosto verso gli interpreti di Aristotele, e segnatamente quelli di tendenza scolastica.

[36] Pietro Metastasio, op. cit., V, p.167

[37] Luigi Reina, Caloprese e la letteratura, relazione al Convegno di Studi su Gregorio Caloprese, Scalea, 27-28 aprile 1991- testo dattiloscritto.

[38] Pietro Metastasio, op. loc. cit.

[39] Luigi Reina, cit.

[40] Gregorio Caloprese, Lettera all’Illustriss. Ed Eccellentiss. Sig. Nicolò Caracciolo Principe di Santabuono, ragionandogli della ‘nvenzione della favola rappresentativa, in Opere, a cura di Lomonaco e Mirto, cit., p. 509

[41] Sul Doria  vedi ….

[42] Giambattista Vico, Autobiografia, a cura di Mario Fubini, Torino, Einaudi, 1977, p.29

[43] Gregorio Caloprese, op. cit. Cfr Alfonso Mirto, La vita, gli studi, la critica, p.51

[44] Franco Dek Buono, Il primo amore del Metastasio durante la sua dimora in Scalea, in “Calabria Letteraria”, anno XVI, nn. 4-5-6, pp. 13-17, ma vedi anche Attilio Pepe, La dimora di Metastasio in Calabria, in “atti dell’Accademia Cosentina”, XIV, 1929

[45] Franco Del Buono, op. cit., p.14

[46] Franco Del Buono, ibidem, dove riporta il testo tratto da “Avanguardia”, Cosenza, anno VII, 1882

[47] Vita del signor abate Pietro Metastasio poeta cesareo ecc., riportata nell’Introduzione  di G. Natali a P. Metastasio, Opere, Milano, Vallardi, 1934, p. XVI

[48] www. pietrometastasio.com, cit.

[50] Giulio Ferroni, op. cit., pp.117-118

[51] in Opere, V, Napoli, 1799

[52] Giulio Ferroni, op. cit., p.121

[53] ibidem

[54] Pietro Metastasio, Tutte le opere, a cura di Brunelli, cit., tomo III, p. 436

[55] ibidem

[56] Giulio Ferroni, op.cit., p.114

[57] cit. in Giulio Ferroni, op. cit., p.115

[58] ibidem

[59] Attilio Pepe, op. cit., p.59

[60] Attilio Pepe, op. cit., p.60

[61] Attilio Pepe, op. cit., p.62

[62] Raffaele Cotugno, op. cit., p.31. Per gli altri giudizi sulla poesia del Caloprese vedi Attilio Pepe, La poesia del Caloprese ecc., cit., p. 65 e Alfonso Mirto, La vita gli studi, la critica, in Gregorio Caloprese, Opere, cit., dove sono raccolte tutte le rime del filosofo di Scalea, da p.523 a p.528

[63] Attilio Pepe, op. cit., p.74

[64] ibidem

[65] Pietro Metastasio, Melodrammi e canzonette, cit., p.23

[66] Giacomo Casanova, Storia della mia vita, a cura di P. Chiara e F. Roncoroni, Milano, Mondatori, 1989, I, p.829

[67] Vittorio Alfieri, Vita scritta da esso, edizione critica a cura di L. Fassò, Asti, Centro Studi Alfieriani, 1951, I, pp.97-98.

[68] Pietro Metastasio, op. cit., pp.30-34