La caduta del fascismo, o meglio l’allontanamento di Mussolini dal governo, il suo arresto e la sua fuga, non costituiscono di per sé elementi irrevocabili di rottura col regime “diarchico” imposto dopo la marcia su Roma, essendo ancora incerta la funzione che la monarchia intende svolgere in relazione alla guerra e alla ripresa della vita democratica. Del resto i partiti antifascisti, costituitisi in Comitato di Liberazione Nazionale solo nell’ottobre del ’43, all’indomani dello sbarco delle truppe alleate in Sicilia prima e in Calabria subito dopo, concordarono sulla non partecipazione al governo Badoglio, riconosciuto dagli anglo-americani solo come co-belligerante contro la Germania. Liberali, democratico-cristiani, socialisti e azionisti, comunisti e democratici del lavoro divergono notevolmente sulle questioni di fondo, prima fra tutte quella istituzionale, in merito alla quale i partiti di sinistra rivendicano per il CNL il diritto di decidere autonomamente, a guerra conclusa e, in ogni caso, dopo l’abdicazione del re, mentre specialmente i liberali, con Croce, sono attestati su posizioni meno intransigenti, sia pure nella solidarietà con le decisioni del CNL. Tale situazione di stallo viene notevolmente modificata dal riconoscimento sovietico del governo Badoglio e dalla “svolta” impressa da Togliatti alla politica del PCI, al suo rientro da Mosca. E tuttavia la costituzione di un governo con i sei partiti antifascisti, presieduto ancora da Badoglio su nomina regia, pur nel ritiro a vita privata di Vittorio Emanuele III, avviene non senza contrasti all’interno dei partiti di sinistra e, segnatamente, in seno al Partito d’Azione, che mostra di essere gestito da una direzione operante al Sud e un’altra attiva nella resistenza al Nord, non certo concordi sull’indirizzo politico immediato da seguire nella difficile fase di trapasso dal fascismo senza Mussolini alla costruzione delle premesse della restaurazione democratica.
Dal 21 aprile al 5 giugno del 1944, poi, il governo di Salerno può operare col concorso di partiti che da poco hanno avviato la loro ricostruzione organizzativa e sono impegnati nella valutazione politica di eventi decisivi per l’avvenire del Paese.
In tale situazione l’azione di governo si concentra sull’emergenza della guerra e delle condizioni di accresciuta miseria dell’Italia del Sud, per le quali i problemi istituzionali costituiscono il paradigma delle future scelte politiche generali.
Naturalmente anche la politica educativa del Regno del Sud è pesantemente condizionata dalle questioni istituzionali, dalla cobelligeranza, dalle azioni di ripristino della legalità democratica e infine dalle relazioni con gli alleati.
“In questo clima” rileva Margiotta “le preoccupazioni maggiori del nuovo governo Badoglio consistettero nel prendere le distanze dal regime fascista e nel contenere, per quanto era possibile a livello istituzionale, il dilagare della Sinistra tra la popolazione. In ciò convergeva con le preoccupazioni delle classi dirigenti e della gerarchia vaticana”[1]. E così, anche per quanto attiene alla politica dell’educazione, si avvia proprio dal Sud il processo di restaurazione all’interno delle istituzioni scolastiche, il cui impianto organizzativo e didattico è destinato a interventi di defascistizzazione senza comprometterne l’ispirazione culturale di fondo. “Si trattò di politica scolastica essenzialmente” continua Margiotta. Il governo del Sud si preoccupò in prevalenza dei bisogni materiali e organizzativi della scuola[2].
In effetti le condizioni della scuola nel Mezzogiorno sono tali da imporre provvedimenti urgenti e di immediata esecutività, per sopperire al fabbisogno di aule soprattutto, in gran parte distrutte dai bombardamenti, ma anche alla mancanza di insegnanti, molti dei quali o sono ancora al fronte o sono sbandati. Le province meridionali in genere sono in uno stato di abbandono e di distruzione che trova nelle scuole segni molto marcati. Le fonti di informazione americane sono abbastanza eloquenti al riguardo. La descrizione della situazione di Cosenza, ad esempio, in cui ancora gli squadristi trovano la forza riorganizzarsi in attesa della partenza degli alleati e del ritorno del fascismo, e dove il mercato nero prospera liberamente, contiene un intero paragrafo, articolato in tre punti, dedicato alla scuola. “Le scuole stanno per aprire” si legge “ma non hanno materiale con cui iniziare. Non hanno libri e tutti i testi contengono propaganda fascista. Altro materiale come matite e carta sono altrettanto importanti per l’apertura delle scuole. Nella città di Cosenza molte scuole furono distrutte dalle bombe. Tuttora non sono stati reperiti nuovi edifici adatti al lavoro scolastico”[3].
In tale contesto l’azione di governo non può non essere rivolta a garantire alle istituzioni educative quanto indispensabile alla ripresa delle attività formative. E tuttavia le misure per le necessità urgenti della scuola vengono adottate in un quadro politico generale dominato dalla preoccupazione di creare le premesse del riassetto politico del Paese a liberazione avvenuta.
Anglo-americani da una parte e forze moderate dall’altra, non ancora liberatesi dalla fedeltà alla corona, oppongono una decisa resistenza alla pregiudiziale istituzionale sulla quale è arroccato il Partito d’Azione, cui si aggiungono ben presto i socialisti. Accanto alla difesa della monarchia, i liberali di Croce sostengono il discorso della ripresa dello stato liberale, nei confronti del quale il fascismo è giudicato solo un elemento di soluzione di continuità, che tuttavia non ha segnato la caduta definitiva delle ragione politiche e ideali sulle quali si era edificato lo stato nazionale unitario[4]. Coerentemente il problema educativo viene contemplato nel segno della continuità e del recupero delle istanze liberali dell’ordinamento scolastico dall’unità in poi, mentre la stessa riforma Gentile viene riconsiderata nel suo spirito originario, a suo tempo non certo rigettato dal Croce. In definitiva per i governi Badoglio e Bonomi, osserva ancora Margiotta, “punto di riferimento costante fu il ritorno alla Riforma Gentile. E fu un ritorno difensivo, fatto proprio con diverse motivazioni dai vari ministri succedutisi tra il ’43 e il ’46, in dipendenza del retroterra culturale di ciascuno”[5].
D’altra parte la partecipazione al governo della sinistra non apporta elementi rilevanti, non che di rottura, di cambiamento. La formazione culturale dei dirigenti socialisti, comunisti e azionisti, è in gran parte debitrice dell’idealismo nel suo complesso e in particolare al neo-idealismo italiano in funzione antipositivistica[6]. Per questa via l’autorità culturale di Croce svolge un ruolo decisivo nella valutazione politica positiva della dichiarazione di decadenza della Carta della scuola di Bottai e della soppressione delle organizzazioni giovanili fasciste, come la GIL e il GUF.
Tuttavia il problema educativo è al centro dell’interesse politico dei partiti, specialmente di quelli di nuova formazione come il Partito d’Azione o di recente ricostruzione come la Democrazia Cristiana.
Il P.d’A., sorto sulla dissoluzione di “Giustizia e Libertà”, si rifà proprio alla posizione sulla riforma della scuola che G.L. aveva indicato già dal 1932 come essenziale al rinnovamento, in senso liberale e socialista, dell’Italia da liberare dal fascismo. Nel programma pubblicato nel gennaio del’32 infatti, ribadito che la caduta del fascismo avrebbe dovuto essere opera di un movimento rivoluzionario capace di impostare e risolvere “in funzione di libertà i problemi politici e sociali fondamentali della vita italiana”, si indicava nell’abbattimento della monarchia e nella proclamazione della repubblica il momento iniziale di un discorso politico che con una decisa politica scolastica riparasse ai guasti provocati nella società italiana dall’azione educativa e per ciò stesso corruttrice del fascismo. Si auspicava perciò una “Scuola gratuita, aperta in tutti i suoi gradi al popolo e aderente alle forme rinnovate della vita sociale”[7]. Nello stesso tempo si affidava alla repubblica il compito di imprimere all’insegnamento e alla cultura il massimo impulso, in quanto essenziali alla politica di progresso civile e di crescita economica.
Le prospettive educative dell’Italia liberata dal fascismo erano contenute in un programma generale di ritorno alla democrazia, che sul piano della politica dell’educazione accoglieva le istanze della posizione laica e democratica, così come questa si era manifestata dalla legge Casati alla riforma Gentile. Il tema della gratuità del servizio scolastico veniva proposto nell’estensione erga omnes dell’accesso a tutti i gradi di istruzione e nel contempo veniva correlato a quello del radicale mutamento delle finalità generali della scuola, per adeguare le istituzioni educative “alle forme rinnovate della vita sociale”.
Cultura e insegnamento venivano considerati funzionali “alla vita e al progresso della repubblica”, nella prospettiva del confronto tra difensori dell’educazione umanistica, per cui la riforma Gentile avrebbe potuto essere conservata anche in un’Italia restituita alla democrazia, e i sostenitori dell’educazione come servizio sociale e politico, volta a compensare i dislivelli socio-culturali di partenza e a fornire risposte adeguate alla domanda di formazione per il progresso economico del Paese.
Non ricorre nel paragrafo dedicato alla scuola il tema della laicità della cultura e dell’insegnamento, ma esso è sottinteso nella valutazione globale del fascismo come esito necessario della crisi delle istituzioni liberali e, in ogni caso, si evince dalla richiesta perentoria della “separazione completa dello Stato della Chiesa” e dal progetto di dichiarazione di nullità dei Patti Lateranensi.
Il programma del ’32 riflette certo la composizione politica di “Giustizia e Libertà” ed è senz’altro riferibile a quello che Carlo Rosselli definisce “il periodo unitario e romantico di G.L., fronte unico di azione demo-socialmente repubblicano (1929-1932), contrassegnato da un grande sforzo di propaganda e di azione illegale, da azioni ardite (evasioni, voli ecc.), da iniziative senza posa rinnovate”[8]. Il fronte comprendeva esponenti democratici dell’Italia prefascista, socialisti e liberali formatisi alla scuola di Piero Gobetti e dello stesso Rosselli impegnati a coniugare socialismo e democrazia all’interno della cultura liberale alla quale si erano originariamente formati. L’ascendenza mazziniana, presente nell’intransigente repubblicanesimo e, per quanto riguarda l’educazione, nell’esaltazione dei fattori morali nel processo formativo, convive con la concezione di un socialismo che con Rosselli si definisce liberale, in quanto antidogmatico e antideterminista, ma che riconduce tale interpretazione ad una visione politica della libertà che ravviva il liberalismo classico con l’esigenza di estendere i principi del farsi libero a tutti i momenti della vita sociale e, di conseguenza, all’educazione, proposta come luogo privilegiato del processo di liberazione dell’uomo. E tuttavia è innegabile l’influenza dell’impietosa analisi della politica educativa nazionale propria di Gaetano Salvemini, che si farà avvertire anche nel Partito d’Azione, specialmente nel Mezzogiorno.
La costituzione del P.d’A. nel 1942 segna il passaggio dalla cospirazione alla politica, compiuta sulla scorta di un’analisi della crisi del regime fascista alla quale vanno riferiti i programmi d’azione per l’immediato e i progetti di restaurazione democratica. Dopo la caduta di Mussolini e la formazione del C.L.N. si pone il problema della partecipazione al governo dell’Italia liberata dagli anglo-americani, che crea momenti di grande conflittualità interna. Infatti l’ingresso nel governo Bonomi provoca profonde lacerazioni in un partito schierato sulla rigida pregiudiziale istituzionale.
Decisa dall’assemblea centro-meridionale, la partecipazione del P.d’A. al governo avviene anche con la designazione di Adolfo Omodeo a Ministro dell’Educazione Nazionale, assieme a quella di Tarchiani ai Lavori Pubblici. Epperò l’esecutivo di Roma del Partito d’Azione si pronuncia immediatamente contro la partecipazione al governo, la cui ragione determinante, secondo Lussu, è da ricercarsi nello stesso ambiente meridionale, “repubblicano certamente, ma incurante dell’importanza dei dettagli, per cui i più erano convinti che la monarchia non poteva essere salvata”[9].
L’attività ministeriale di Omodeo si svolge pertanto in una situazione politica generale dominata in questo momento dalle forze moderate del C.L.N. meridionale, in cui si va sempre più attenuando l’intransigenza antimonarchica e nello stesso tempo le posizione di Croce e Sforza, verso le quali convergono di fatto quelle di Omodeo, acquistano forza e rilievo politico nella funzione equilibratrice dei contrasti tra i partiti democratici sulla questione della nomina del capo del governo.
Tuttavia i propositi del rettore dell’università di Napoli, profondamente consapevole delle condizioni generali di arretratezza del Mezzogiorno, sono essenzialmente quelli di “abolire” – rileva Margiotta – “non solo le strutture del regime scolastico fascista, quanto soprattutto quella miriade di disposizioni e privilegi che erano diventati costume autoritario di regolazione” tra le varie componenti della scuola[10], così come giudica necessario rinnovare con coraggio la cultura italiana, attraverso una ricostruzione critica del passato, che non si risolva nel rifiuto generalizzato delle forme del sapere di un tempo, ma si eserciti come rifondazione teorica per l’educazione dei giovani dopo un’intera stagione di formazione al trasformismo fascista.
L’azione di Omodeo si deve certo concentrare “più che sulla elaborazione di una dottrina pedagogica, sulla ricostruzione dell’organismo scolastico stesso messo in pericolo dalle vicende politiche”[11]. Per di più Omodeo, preoccupato dalle condizioni in cui si manifesta la domanda giovanile di formazione, si propone di preservare le istituzioni educative dal degrado cui verrebbero confinate dall’accesso di una gioventù di guerra, i cui bisogni formativi dovrebbero essere soddisfatti nel rifiuto non solo dell’educazione fascista, ma anche della valutazione dei meriti di guerra tout-court come assorbenti gli effettivi elementi del giudizio scolastico[12].
La scelta di Omodeo come ministro dell’educazione nazionale appare nel P.d’A. come lo sbocco inevitabile della posizione da lui assunta nel Regno del Sud e nel C.L.N., quando si mostra “orientato per la partecipazione” al governo, per cui Emilio Lussu lo gratifica dell’etichetta di “radicale di sinistra”, differenziandolo a mo’ di esempio, da Francesco De Martino, che “superato il liberalismo di Benedetto Croce” avvia un processo di revisione culturale che lo porterà un giorno al socialismo[13].
In effetti Omodeo, al pari del Gobetti di “Energie Nuove”, è fortemente debitore all’idealismo e all’attualismo gentiliano, prima di attestarsi sul fronte moderato del fronte laico e liberal-democratico. Presente nel dibattito politico fino dal periodo di collaborazione a “La Voce”, non giudica positivamente l’accesso indiscriminato alla scuola finalizzato esclusivamente al conseguimento di titoli. Come Gobetti e Augusto Monti paventa la trasformazione in scuola di massa delle istituzioni educative italiane, affiancandosi alla stessa diffidenza dei socialisti riformisti, e non solo riformisti, di fronte all’aumento dell’offerta formativa ad egemonia culturale borghese[14].
Con Gentile, Arangio Ruiz, Lombardo-Radice condivide per un certo periodo la collaborazione all’“Educazione Nazionale” nell’accentuazione della critica alla scuola neutra e nella difesa della nazionalità delle istituzioni scolastiche, fondamento umanistico del ginnasio-liceo, preservabile nella sua “natura aristocratica” dal contenimento della domanda di istruzione[15]. Epperò, al momento in cui tali esigenze si manifestano non come conservazione di una tradizione culturale liberale, ma come supporto alla fascistizzazione della scuola, Omodeo non tarda a manifestare il suo dissenso, al pari di Lombardo-Radice e Augusto Monti[16].
Al momento della partecipazione al governo del Regno del Sud la politica educativa del P.d’A. si ispira ancora alle idee critiche di Salvemini e al pensiero di Gobetti di “Rivoluzione Liberale”, in un’analisi teorica volta a conciliare la visione aristocratica degli studi con le esigenze educative di una società da restituire alla democrazia, perché l’educazione è riguardata anche come strumento di uguaglianza e di giustizia sociale[17]. Il rigetto della scuola di massa si manifesta nel riconoscimento della necessità delle diversificazione delle offerte formative in rapporto alle attività produttive del paese, prima fra tutte l’agricoltura. Nei programmi del partito politica agricola e industriale e politica dell’educazione sono tenute saldamente connesse da un progetto politico di restaurazione democratica, secondo una concezione ancora essenzialmente liberal-moderata, in cui il soddisfacimento delle esigenze educative della classe operaia è affidato a un tipo di istruzione professionale per l’accesso ai mestieri e ai livelli più modesti della produzione. Il ‘900 invece per Lussu non può che essere il secolo del passaggio dalla democrazia al socialismo; ma nel P.d’A., tale tesi pur uscita vincente al Congresso di Cosenza, non trova il consenso dell’ala liberal-democratica di Ugo La Malga e Adolfo Omodeo[18].
In tale congresso la questione educativa è al centro del confronto politico tra la componente liberal-democratica di La Malfa e quella socialista di Lussu e De Martino; in essa la polemica salveminiana contro la cultura della piccola borghesia umanistica orienta l’indirizzo propositivo[19], ma già dal febbraio del 1944 il P.d’A. rende nota la sua posizione sul problema della scuola in un numero speciale del suo organo di informazione, dedicato interamente all’educazione.
Le riforma della scuola è presentata in stretta connessione con la riforma del costume. “Il problema della scuola è dunque insieme un problema di giustizia sociale, di riforma pedagogica e di trasformazione del costume”[20]. In tale prospettiva si guarda con sospetto ai propositi di rinnovamento che sfuggono alla conservazione del nesso tra educazione e fondazione delle libertà democratiche. Nello stesso tempo si rileva: “La nuova società del lavoro reca una concezione nuova del problema educativo. Non ci può essere soluzione di continuità fra il lavoro manuale e quello intellettuale… L’educazione deve dare all’uomo fin dai primi anni quel senso costruttivo che è la premessa e la garenzia di ogni seria specializzazione nel campo del lavoro manuale e della concretezza nel campo dell’attività intellettuale”. E ancora: “Perciò l’ordinamento scolastico dovrà essere coordinato molto intimamente con quello dei grandi organismi produttivi. Non si tratta qui di ridurre le scuole a istituti di avviamento professionale o di svuotarle di umanesimo, ma di mutare radicalmente la concessione stessa della cultura. La quale deve essere bensì strumento di selezione sociale e politica, ma non nella ristretta cornice degli attuali veti borghesi, e perciò stesso non deve essere alimentata dai loro esclusivi ideali e interessi”[21].
L’approccio pragmatico al problema educativo è fuor di dubbio, così come è innegabile la matrice democratica progressista dell’impostazione, con toni radicali forti che vanno incontro ad un altrettanto forte ridimensionamento all’atto della formazione del governo nel Regno del Sud, in seno al quale l’incarico di ministro dell’Educazione conferito ad Omodeo, se da un lato è un giusto riconoscimento alla persona e al suo impegno politico democratico, dall’altro si inquadra in uno scenario politico dominato dalle forze moderate del C.N.L., escludente qualsiasi rottura con il recente passato educativo. Gli elementi di socialismo, pur presenti nel programma di gennaio, appaiono confermati del resto già nel mese di luglio, quando il P.d’A. rende noti i “sedici punti” della sua proposta politica. “Il P.d’A. dichiara la riforma della scuola di interesse essenziale per l’avvenire del paese”, si legge nel punto 13. “Sta nel centro di tale riforma il rinnovamento dei metodi educativi, che, attraverso una rivalutazione del lavoro nei suoi intrinseci rapporti con l’insegnamento intellettuale ed una più moderna concezione della cultura umanistica, faccia meglio valere nella scuola le esigenze della vita e prepari nell’uomo non soltanto il professionista, ma anche il cittadino. Allo stesso fine il Partito d’Azione propugna l’abolizione del privilegio economico dei ceti abbienti ancora in atto nella scuola media e superiore”[22]. E tuttavia, essi non trovano riscontro nella politica educativa del governo nel Sud Italia. Ed è proprio dal Mezzogiorno che s’origina la grande manovra politica di contenimento delle istanze di radicale rinnovamento della vita politica italiana per destinare il paese ad un assetto politico istituzionale liberal-democratico sì, ma in senso riduttivo e comunque al riparo da spinte progressiste. La scuola in tale progetto di restaurazione democratica contenuta ha un ruolo fondamentale, per cui la politica scolastica dei primi mesi di governo dell’Italia libera nel Sud si pone come la prefigurazione dei comportamenti di governo dell’Italia postfascista, in base ai quali il discorso sulla riforma della scuola farà aggio sull’effettiva capacità politica di rinnovare le istituzioni educative italiane. La stessa composizione politica del ministero del Regno del Sud anticipa il sistema di alleanze che troverà stabile assetto dopo la definitiva rottura del patto di unità nazionale tra i partiti del C.L.N., nel 1947, con la esclusione dal governo di comunisti e socialisti e in vista della soluzione centrista della formazione del governo, in cui si incontrano liberali, repubblicani e cattolici, che, dalla caduta del fascismo fino alla Liberazione si sono ricostituiti in partito organizzato, sotto la guida di De Gasperi, passando attraverso diverse fasi di aggregazione e di ricerca di una propria identità politica da far valere sul doppio fronte della Chiesa e dello Stato.
Negli anni ’43-’45 da parte cattolica ci si schiera su posizioni di rigida difesa di quanto ottenuto, in materia di politica scolastica, dal governo fascista e dai governi prefascisti in tema di insegnamento della religione, di esame di stato e di scuola privata e nello stesso tempo si preannuncia un confronto ancora più duro sulla libertà della scuola contro il monopolio educativo dello Stato. Il governo fascista aveva chiuso tali questioni con la riforma Gentile prima e con i Patti lateranensi dopo, ponendo fine ad una lunga stagione di scontro tra cattolici e laici, che, specie negli anni 1870-1890, ma anche durante l’età giolittiana, avevano trovato nella Massoneria di Adriano Lemmi, di Ernesto Nathan e altri il punto di riferimento più conseguente nella battaglia per una scuola antidogmatica e antitemporalista[23].
Caduto il fascismo, i cattolici sono impegnati nella costituzione di un partito che non sia una semplice riedizione del Partito Popolare Italiano di don Sturzo. In tal senso gli sforzi delle diverse tendenze politiche cattoliche italiane sono rivolti a ragionare in termini di forza politica maggioritaria, dichiarandosi in qualche caso disposti a collaborare anche con Badoglio contro il pericolo comunista. Il terreno di qualificazione politica è quello della democrazia liberale, garante della libertà dei cattolici. La scuola diventa essenziale in questo progetto e già nelle Idee ricostruttive della democrazia cristiana, nel luglio del 1943, si affidano allo Stato democratico la “tutela della moralità” e “integrità della famiglia”, valutando l’iniziativa statale di formazione solo come funzionale al sostegno della missione propria dei genitori “di educare cristianamente le nuove generazioni”[24]. In tutto il testo, accanto alla ripresa delle istanze sociologiche riferibili alla tradizione democratica e cristiana di Giuseppe Toniolo, è rilevabile l’influenza di Alcide De Gasperi e dei suoi più stretti collaboratori, da Paolo Bonomi a Guido Gonella, a Giuseppe Spataro, che rappresentano il meglio della tradizione cattolico-liberale sui grandi temi dell’edificazione dello Stato, del decentramento, dell’economia e del lavoro, nonché su quello dell’educazione.
Dalle Idee ricostruttive al Programma di Milano della D.C. neoguelfismo e cattolicesimo popolare convergono sull’ipotesi della ricostruzione democratica che passi per la difesa della cultura cattolica italiana, in piena sintonia con le direttive della Chiesa. Nel Programma di Milano, in particolare, si ribadisce il carattere integrativo dell’educazione scolastica statale rispetto a quella della famiglia e viene così risollevato il problema della libertà dell’insegnamento e della libertà della scuola. Da Milano si propongono pertanto il decentramento della scuola di primo e di secondo grado, l’autonomia dell’Università e la libertà nell’insegnamento privato: “esami di stato, vigilanza dello stato su tutti i rami dell’insegnamento, con il concorso dei corpi insegnanti e dell’associazione dei padri di famiglia”[25], invocando le “tradizioni del popolo italiano” e la “libertà delle coscienze”[26].
Nel concentrarsi sul tema della libertà della scuola, intesa come difesa del diritto dei cattolici a istituire scuole direttamente gestite, i democristiani, nella fase ricostruttiva del partito non sono indotti a conferire finalità sociali alla scuola, indicata come elemento integrativo dell’educazione familiare. In questo senso l’ordinamento scolastico gentiliano non è messo in discussione, così come nella conservazione delle strutture educative esistenti la D.C. individua, ancor prima di manifestarsi in tutta la sua forza organizzativa e la sua influenza elettorale, la propria funzione storica di garante delle tradizioni culturali cattoliche del popolo italiano.
D’altronde sul piano politico generale la D.C., pur schierata sul fronte moderato nella difesa della proprietà privata, nel differimento della questione istituzionale e nella proposta di un ordinamento democratico di tipo conservatore, è ben attenta con Demofilo, e cioè con De Gasperi, nel gennaio del 1944, a preservarsi da ogni accusa di integralismo. La tradizione cui dovrà ispirarsi il partito è per De Gasperi “la tradizione di quel movimento di idee e di fatti sorto alla fine del sec. XIX, che in Italia si chiamò prevalentemente democratico-cristiano (mentre altrove, specie nei paesi austriaci, si disse cristiano-sociale)”, una tradizione che nei momenti di svolta della storia, in un processo di incessante rinnovamento, “dà vita a nuove forme sociali, diventa il lievito di una nuova economia e germina profondi rivolgimenti politici”[27]. In tale azione politica, “pur confessandoci debitori verso i principi di rinnovamento civile, insegnatici dalla scuola cattolico-sociale e riaffermati con luminoso vigore nel messaggio pontificio al mondo nel Natale del 1942, noi evitiamo dichiarazioni esibizionistiche che paiano metterci sullo stesso piano di recenti esperienze o proclami, sfruttatori del cattolicesimo come strumenti di governo, o possano darci l’aria di vantare o pretendere sul terreno delle attuazioni politiche la rappresentanza, ufficialmente delegata, di tutti i cattolici italiani”[28].
Tuttavia l’intervento fin dai primi mesi del ’43 dell’Azione Cattolica di Gedda si svolge all’insegna dell’integralismo e dell’intransigenza che accompagnano la “restauratio cattolica”[29].
L’offerta al governo Badoglio della collaborazione e del sostegno dell’A.C.[30] suscita tuttora valutazioni differenti tra i cattolici, per cui se per Pietro Scoppola le idee-guida della mobilitazione cattolica non sono certo ispirate alla tradizione democratico-cristiana, ma il progetto di uno “stato democratico ordinato secondo giustizia” non è del tutto lontano “dai modelli franchista o salazariano ai quali del resto più volte la stampa cattolica si era richiamata in periodo fascista e si sarebbe rifatta ancora negli anni successivi”[31], per altri invece, come Andreotti, “arrivare all’idea che in Vaticano, il papa e i suoi collaboratori puntassero ad una soluzione di tipo salazariano” appare “un salto eccessivo”[32]. In ogni caso i successivi interventi di “Civiltà Cattolica” rivelano l’intenzione dei cattolici di arginare l’azione del fronte dei partiti di sinistra e quella dei laici, nel processo di defascistizzazione della vita politica italiana, per evitare l’annullamento delle posizioni conquistate dalla Chiesa specialmente in seno alle istituzioni educative.
La difesa pregiudiziale del diritto della Chiesa in materia di educazione è sostenuta rigorosamente dal gesuita Mario Barbera contro il monopolio educativo dello Stato, cui contrappone i principi del personalismo cristiano, per il quale l’educando va sostenuto “nella sua dignità di essere razionale nell’ordine naturale e di figlio di Dio nell’ordine soprannaturale”[33].
Da qui la richiesta di finanziamento della scuola non statale avanzata fin dal 1° gennaio del ’45 e che “Scuola Libera” sosterrà dal 1946 in poi, segnando una lunga stagione di confronto tra laici e cattolici sulla questione del sostegno dello stato all’iniziativa privata di formazione[34]. Comunisti e socialisti
I partiti socialista e comunista, impegnati, il primo nella ricostruzione organizzativa dei gruppi sopravvissuti alla dittatura e le formazioni maturate nell’esilio e nel confronto con gli altri partiti socialisti europei, assorbito, l’altro, dall’organizzazione della Resistenza e dalla creazione del “partito nuovo”, non possono che rifarsi alla lunga esperienza di lotte del secolo procedente e dell’età giolittiana accumulata dai socialisti e ripresa su ben altri fondamenti da Gramsci dal 1919 in poi e fino alla stabilizzazione del regime diarchico, monarco-fascista.
Il movimento operaio e socialista aveva fin dalle origini puntato alla politica scolastica come al terreno su cui realizzare l’azione di governo per l’istituzione di scuole per lavoratori e per i ragazzi dei ceti diseredati, accettando in ultima analisi una sorta di divisione, se non del sapere, della scuola, per cui operai e contadini venivano confinati in un tipo di istruzione prevalentemente professionale, con l’inevitabile ricorso alla cultura di governo solo da parte della borghesia egemone. Proprio in occasione del dibattito sulla riforma Gentile i socialisti di formazione idealistica e antipositivistica sostenevano invece il diritto di tutti di accedere ai vari gradi di istruzione, facendo precedere tale posizione politica da riflessioni e studi sulle differenze tra idealismo borghese e idealismo socialista[35].
Nel passaggio dalla clandestinità alla politica nel Regno del Sud, comunisti e socialisti sono certo schierati a difesa della scuola democratica, come istituzione vocata all’educazione per il rinnovamento civile. Le posizioni laiche stanno più a cuore ai socialisti, mentre i comunisti tendono a ridurre le ragioni di un contrasto più che decennale, in un momento in cui molti uomini di cultura di vari orientamenti stanno per accostarsi al comunismo[36]. È indubbio che solo dopo il 1945 le posizioni si preciseranno nella differenziazione di tendenze riconducibili alle grandi matrici culturali e ideali del cattolicesimo, del marxismo e dei laici, in seno ai quali il nesso tra democrazia e educazione, di scuola deweyana, si incontrerà con la richiesta di una educazione di tipo scientifico, contrapposta all’educazione umanistica.
I socialisti dal canto loro affideranno ad una commissione nazionale il compito di formulare una serie di proposte per la riforma della scuola, di cui riferirà Franco Lombardi su “Socialismo”. I punti qualificanti saranno l’estensione dell’obbligo scolastico elementare a tutti, nuove forme di reclutamento degli insegnanti e il rinnovamento dei programmi, in vista del quale sarà indispensabile adeguare l’educazione alle nuove esigenze della società, in cui più ampi spazi avrebbero dovuto trovare le classi lavoratrici.
Lo stesso PCI, al suo V Congresso, affronterà il discorso della riforma della scuola, indicando come obiettivo primario l’obbligo scolastico fino a 14 anni. All’indomani della Liberazione Lucio Lombardo Radice, Antonio Banfi e Concetto Marchesi porranno il problema dei contenuti e delle strutture: “la scuola come strumento di emancipazione dei giovani dei ceti popolari attraverso l’accesso alla cultura”[37]. Banfi e Marchesi si confronteranno vivacemente su tali temi, sostenendo il primo la necessità di creare una scuola idonea a “recuperare la coscienza della sua funzione sociale, come scuola di tutti e per tutti”, il secondo “una scuola unica di cultura generale, educativa formativa, dove lo sviluppo delle capacità di lavoro manuale possa giustamente contemperarsi con lo sviluppo delle capacità di lavoro intellettuale, dove, attraverso una serie di orientamenti professionali, lo scolaro possa passare o a una scuola speciale o al lavoro produttivo”[38].
La funzione sociale della scuola e l’attenzione ai problemi dell’educazione integrale dell’uomo saranno le due piste lungo le quali si svilupperà l’azione dei comunisti per la scuola, nel confronto con le istanze della cultura e della pedagogia laica, nelle sue varie opzioni, e con quelle socialiste, specialmente negli anni ’50, in presenza di un ministero gestito quasi sempre dalla D.C., partito guida della ricostruzione del paese nel periodo del centrismo.
[1] Umberto Margiotta, La formazione della coscienza politica degli italiani durante la Resistenza, in La scuola italiana dal 1943 al 1983, La Nuova Italia, Firenze, 1986, pp. 11-12.
[2] Ibidem.
[3] Ufficio dei Servizi Strategici, Washington D.C., gennaio 1944, in “Bollettino dell’Istituto Calabrese per la Storia dell’Antifascismo e dell’Italia Contemporanea”, Cosenza, n. 2, dicembre 1987, p. 55.
[4] Renzo De Felice, Le interpretazioni del fascismo, Laterza, Bari, 1977, pp. 227-239.
[5] Umberto Margiotta, La formazione della coscienza ecc., cit. p. 12
[6] Dina Bertoni Jovine, Principi di pedagogia socialista, Editori Riuniti, Roma 1977; Enrico Esposito, Pietro Mancini e il problema educativo, in “Qualeducazione”, fasc. 16, gen.-mar. 1987, pp. 13-17.
[7] “Quaderni di Giustizia e Libertà”, n. 1, gennaio 1932; cfr. anche Schema di Programma, Bottega d’Erasmo, Torino 1959 e Elena Aga Rossi, Il Movimento Repubblicano, Giustizia e Libertà e il Partito d’Azione, Cappelli, Bologna, 1969, p. 78.
[8] Carlo Rosselli, Per l’unificazione politica del proletariato italiano, in “Giustizia e Libertà”, 14 maggio 1937, poi in Scritti politici e autobiografici, prefazione di Gaetano Salvemini, Polis ed., Napoli, 1944, pp. 189 e sgg.
[9] Emilio Lussu, Sul Partito d’Azione e gli altri, Mursia, Milano, 1968, p. 92.
[10] Umberto Margiotta, La formazione della coscienza ecc., cit. p. 13; cfr. anche Tina Tomasi, La scuola italiana dalla dittatura alla Repubblica, Editori Riuniti, Roma, 1976, p. 26; Adolfo Omodeo, Lettere, Einaudi, Torino, 1963, al figlio Pietro, 4 maggio 1944.
[11] Dina Bertoni Jovine, La scuola italiana dal 1870 ai giorni nostri, Editori Riuniti, Roma, 1975, 2ª e 3ª ristampa, p. 400.
[12] Adolfo Omodeo, Lettere, cit.
[13] Emilio Lussu, Sul Partito d’Azione ecc., cit., p. 103.
[14] Tina Tomasi, Idealismo e fascismo nella scuola italiana, La Nuova Italia, Firenze, 1969, p. 7.
[15] Tina Tomasi, op. cit., p. 38.
[16] Tina Tomasi, op. cit., p. 89.
[17] Dina Bertoni Jovine, Principi di pedagogia socialista, cit., pp. 352-358; 402-407.
[18] “Emancipazione”, organo del P.d’A. di Cosenza, settembre 1944; Emilio Lussu, Sul Partito ecc., cit., p. 19-112.
[19] Enrico Esposito, Educazione e Mezzogiorno, “Qualeducazione”, n. 1, ottobre-dicembre 1982, pp. 29-34.
[20] “Italia Libera”, 20 febbraio 1944, in Dina Bertoni Jovine, La scuola italiana ecc., cit., pp. 393-398.
[21] Ibidem.
[22] “Italia Libera”, 19 luglio 1944.
[23] Tina Tomasi, Massoneria e scuola dall’unità ai nostri giorni, Vallecchi, Firenze, 1980.
[24] Atti e documenti della D.C.: 1943-1947, Cinque Lune, Roma, 1968, I, pp. 1-8.
[25] Atti e documenti ecc., cit., pp. 9-11.
[26] Atti e documenti ecc., cit., p. 7.
[27] Atti e documenti ecc., cit., pp. 23-34.
[28] Ibidem.
[29] Umberto Margiotta, La formazione della coscienza ecc., cit., p. 12.
[30] Teodoro Sala, Un’offerta di collaborazione dell’Azione Cattolica Italiana al governo Badoglio, in “Rivista di Storia contemporanea”, ott. 1952, pp. 517-533.
[31] Pietro Scoppola, La democrazia cristiana in Italia dal 1943 al 1947, in “Storia e politica”, nn. 1-2, 1975, pp. 184 e sgg.; cfr. anche Giorgio Galli, Storia della DC, Laterza, Bari, 1978, pp. 40-43.
[32] Giulio Andreotti, Intervista su De Gasperi, a cura di Antonio Gambino, Laterza, Bari, 1977, p. 22.
[33] “Civiltà Cattolica”, febbr.-mar., mag.-giu. 1944.
[34] Enrico Esposito, Vito D’Armento, Giuseppe Serio, Scuola Statale e non statale – Ipotesi a confronto, Pellegrini, Cosenza, 1986.
[35] Pietro Mancini, Idealismo borghese e idealismo socialista, “Avanti!”, 19, pp. 23-24, 28 sett. 1923.
[36] Cfr. su questo Lucio Lombardo Radice, Comunismo e cultura, in “Rinascita”, 1944-1962, a cura di Paolo Alatri, Landi, s.l., 1977, II, pp. 139-142.
[37] Giorgio Bini, Trenta anni per la riforma, in “Riforma della scuola”, nn. 8-9, anno XXI, monografico su I comunisti, la scuola, la pedagogia – Trenta anni di storia, pp. 14 e sgg.
[38] Ibidem, su fonti dell’Istituto Gramsci. Cfr. anche gli interventi di Marchesi, Banfi e Lombardo Radice, su “Rinascita”, 1945-1946 e su “l’Unità”.