L’esoterismo di Dante

1 – Quale allegoria ?

Le interpretazioni della Divina Commedia hanno portato alla produzione di un immenso corpus , che da sempre si sovrappone, quando non si sostituisce del tutto, all’ispirazione autentica del poema e al suo messaggio.

Già Benedetto Croce, nel celebre saggio del 1921 su La Poesia di Dante,  mette in guardia dalla dantomania, il virus che infetta ormai da secoli il lavoro critico e interpretativo dei dantisti. Addita poi la necessità di un’interpretazione allotria del poema dantesco, con la dichiarata intenzione di risalire ai presupposti dell’ispirazione del poeta attraverso lo scioglimento delle allegorie che popolano e vivificano la narrazione del viaggio nell’oltretomba. Son innumerevoli, ma per tutte si pone tuttora il problema di individuare e definire l’humus che le ha fatte germogliare, quel denominatore comune cioè, che rende tutta la Divina Commedia un’unica stupenda allegoria, esposta a svelamenti che spesso riflettono le idee degli analisti di ogni epoca, i loro gusti estetici, le loro tendenze politiche, le loro preferenze religiose e le loro scelte morali. D’altra parte è lo stesso Dante che invita fin dal IX canto, vv. 61-63, dell’Inferno tutti quanti hanno “intelletti sani” a mirare “la dottrina che s’asconde/ sotto il velame de li versi strani”. E sempre Dante, nell’esporre la teoria dei quattro sensi delle scritture nel Convivio, II, 1, sembrerebbe indicare il percorso interpretativo da seguire nella lettura della sua opera. Non a caso il suo invito è rivolto agli “intelletti sani”, a quelli cioè che sanno resistere alle Gorgoni di ogni tempo, che offuscano le menti degli uomini, inducendoli a delitti di gratuita malizia. La presenza poi di Virgilio conferisce allo stesso invito la ricerca di un superamento del solo significato morale dell’allegoria, in vista di acquisizioni non del tutto accessibili alla comprensione comune, non sostenuta dalla disponibilità alla ricerca dell’ascoso o dell’occulto, di cui si dovrà in seguito parlare.

Intanto va ricordato che sempre nel 1921 sul tema dell’allegoria una delle voci più autorevoli dell’esoterismo italiano, Arturo Reghini, con uno scritto dal titolo L’allegoria esoterica di Dante,[1] sulla scia dell’interpretazione esoterica prevalente nella ricezione francese del poeta fiorentino. Lo studioso, allievo e sodale di Amedeo Rocco Armentano di Scalea, guida spirituale di un cenacolo pitagorico attivo nella Torre Talao di quella città sul Tirreno in Calabria, è convinto che, al di là del senso letterario “nel viaggio ultraterreno di Dante si nasconde un’allegoria” e che non è necessaria alcuna dichiarazione del poeta “per esserne certi”.[2] E tuttavia è bene non dimenticare che lo stesso Dante nella lettera al figlio Pietro proprio così scriveva: “Petre, facias declarationem”. Non ci sono elementi tali da far pensare a un commento che altro non fosse che il tentativo di porre freno alle interpretazioni che già in vita del poeta fiorivano numerose intorno alla Divina Commedia, ma è azzardato anche solo ipotizzare che Dante invitasse il figlio a svelare la dottrina nascosta nei suoi versi, proprio per la natura di questa, che doveva restare nascosta e che in ogni caso era difficile rivelare. Dante poteva aver pensato a mettere ordine nelle svariate ipotesi di svelamento dell’allegoria negli aspetti che più degli altri hanno affascinato i commentatori, e cioè quello morale e quello politico; ma sarebbe sempre rimasta una spiegazione incompleta e parziale rispetto agli  altri sensi dell’allegoria dantesca. L’allegoria morale peraltro, al pari di quella politica, è fin troppo evidente, in quanto riflesso della personalità del poeta, così come s’è manifestata nelle vicende politiche  del Comune di Firenze, che lo hanno visto protagonista. “L’interpretazione morale, o filosofico morale,” rileva Reghini “ vede allegoricamente raffigurata nella Commedia la via che l’uomo deve percorrere per superare il peccato e raggiungere la virtù in modo da sfuggire all’inferno ed al purgatorio e da guadagnare colla perfezione morale il paradiso”.[3] E’ un’allegoria nella quale Reghini stesso, teorico nel primo Novecento del ritorno al paganesimo, individua in ogni caso “un aspetto nettamente cristiano pure abbondando di elementi pagani”,[4] lungo la direttrice aristotelica e agostiniana a fondo indagata dai critici danteschi. L’allegoria politica, sempre secondo Reghini, “ha per base la lotta tra l’impero e il papato, e vi figura largamente anche la persecuzione dei templari da parte di Filippo il Bello e di Clemente V”.[5] Dal punto di vista politico insomma il velo è piuttosto trasparente, “mentre il velo si fa più spesso nei passi che trattano di morale, di filosofia, di religione, di metafisica” e talora per quanto i commentatori aguzzino gli occhi non riescono a chiarire il senso, oppure ognuno di essi finisce coll’intendere diverso dagli altri”.[6] Si impone allora un’altra lettura della Divina Commedia, che vada oltre i sensi delle scritture, indicati dallo stesso Dante, partendo però sempre da questi, che, avverte René Guenon, “non possono in nessun caso distruggersi od opporsi, ma debbono invece completarsi ed armonizzarsi come le parti di uno stesso tutto, come gli elementi costitutivi di una sintesi unica”.[7] Quella esoterica appare la sola in grado di garantire quanto richiesto da Guenon. Che Dante poi abbia voluto “ascondere” sotto il bel velo dei suoi versi una vera e propria “dottrina” esoterica è ipotesi che non si può rigettare a priori, ma che non deve nemmeno essere accolta acriticamente, pur di pervenire a conclusioni comunque esposte a forte rischio di arbitrarietà. Si tratta invece di precisare che cosa si debba intendere per esoterismo in Dante, per quali vie il poeta si sia accostato all’esoterismo stesso e come poi ne abbia fatto il motivo dominante della sua produzione poetica.

Si richiede senz’altro grande cautela per procedere correttamente su questa via. Non basta, come fa il Reghini, richiamare il correlarsi del poeta a Virgilio, eletto duca, signore e maestro nel suo viaggio nei tre regni dell’oltre tomba. L’esoterista neopagano e imperiale indica in Virgilio il momento di raccordo tra la dottrina precristiana dei misteri  e quella del medio evo, alla quale Dante dovrebbe appartenere a pieno titolo. Reghini respinge, in questo caso non a torto,  l’idea che Dante, sia da riguardare come poeta cattolico, integrato nella Chiesa del suo tempo, come pretende Benedetto XV nell’enciclica In preclara, del 30 aprile dello stesso anno,  e invoca a sostegno del suo ragionamento le posizioni politiche di Dante, i suoi tempestosi rapporti con Bonifacio VIII e, ancora, le sue scelte culturali enucleate nel canto decimo del Paradiso. Certo “l’allegoria politica ci rivela con tutta sicurezza un Dante partigiano dell’impero e nemico acerrimo della Chiesa, difensore a viso aperto di quell’ordine dei Templari condannato e ferocemente perseguitato dalla Chiesa”[8]. Ma appare improprio ricondurre l’esoterismo dantesco alla sola radice pitagorica di derivazione virgiliana, anche se non si può negare, in riferimento al pitagorismo, e specialmente al simbolismo dei numeri in Dante, che “da Pitagora a Virgilio e da Virgilio a Dante, la ‘catena della tradizione’ non fu senza dubbio rotta in Italia”[9].  Va evitato insomma il rischio di rimanere nell’ambito essoterico piuttosto che in quello esoterico, facendo prevalere cioè elementi esteriori di carattere essenzialmente politico o filosofico, se non anche filosofico – teologico, in cui dominante risulta il senso letterale, precludendosi così la possibilità di andare oltre i tre sensi indicati e di non cercarne il quarto. E qual è allora veramente il quarto senso, quello che Dante definisce anagogico? “Per noi” dice Guenon, “non può essere che un senso propriamente iniziatico, metafisico nella sua essenza, ed al quale si riattaccano molteplici dati, i quali, senza essere tutti d’ordine puramente metafisico, presentano un carattere ugualmente esoterico”.[10] Proprio quel carattere sfuggito alla maggior parte dei critici e quelli che l’hanno intravisto non ne hanno colto la vera natura. Quest’ultimo rilievo si riferisce agli studi di Rossetti e Aroux, per i quali l’esoterismo di Dante sarebbe alla base del suo essere eretico.[11] In tal modo non hanno fatto altro che mischiare “considerazioni riferentisi a domini del tutto differenti”.[12] Aroux, prete cattolico,  si chiede se Dante fu cattolico o albigese, così come in seguito ci si domanderà se il poeta era cristiano o pagano. Ma non è affatto corretto porre la questione in questi termini e, giustamente, Guénon fa rilevare che “il vero esoterismo è una cosa del tutto differente dalla religione esteriore, e, se ha qualche volta rapporto con questa, non può essere che in quanto trova nelle forme religiose un modo d’espressione simbolico; d’altronde, importa poco che queste forme siano quelle di tale o tal’altra religione, poiché ciò di cui si tratta è l’unità dottrinale essenziale, la quale si dissimula dietro la  loro apparente diversità.”[13] Lo stesso discorso vale per le filosofie, a incominciare dal pitagorismo, che non appare l’unica via di accesso di Dante all’esoterismo.

In ogni caso bisogna guardarsi dal definire cattolico, o anche soltanto cristiano, l’esoterismo di Dante, per il fatto che l’esoterismo stesso, occorre ribadirlo, non si identifica con una dottrina o con una religione soltanto. “La metafisica pura” osserva ancora Guénon “non è né pagana, né cristiana, è universale; i misteri antichi non erano paganesimo, ma vi si sovrapponevano; e, parimenti, nel medio evo, vi furono organizzazioni il cui carattere era iniziatico e non religioso, ma che avevano la loro base nel cattolicesimo”.[14] Vero è tuttavia che Dante si ispira a Virgilio e che la Divina Commedia riprende il tema del libro sesto dell’Eneide, e cioè che Dante, ancor vivo, scende nel regno dei morti, che si cinge del ramo di mirto come gli iniziati dei misteri orfico – pitagorici, ma è innegabile che in più di un luogo della sua opera si rifà ad autori e figure del mondo cristiano e cattolico, da San Tommaso a san Francesco d’Assisi, da San Domenico a San Bernardo. E questo accade perché ha piena consapevolezza della natura unitaria dell’esoterismo, al di là di qualsiasi forma di “sincretismo superficiale”, come ben rileva Guénon. Se poi si ispira a figure e personaggi dell’antichità e del mondo cattolico, spesso in aperta contraddizione con il pensiero dominante nella Chiesa del suo tempo, quella di Bonifacio VIII, ciò non contraddice al suo essere o voler essere cristiano e cattolico. Reghini ipotizza che l’esaltazione da parte di Dante della Roma di Cesare, cui succede la Roma cristiana, sia dettata dalla necessità di “tranquillizzare i sospetti facendo anche l’apologia del cristianesimo” [15],  per non incorrere in definitiva nell’accusa di eresia. Che questa poi fosse più che probabile, è dimostrato dal fatto che viene ripresa ancora dall’Aroux nel 1854, e ancora prima da Ugo Foscolo,  e non meraviglia che avvenga, in quanto era incominciata da tempo l’operazione culturale tendente a fare di Dante il poeta massimo dell’ortodossia cattolica. Del resto, come vedremo, mancò poco che il poeta fiorentino non venisse processato come eretico, tenendo comunque presente che dietro accuse di tal genere si nascondeva una ben individuabile reazione politica della Chiesa contro quanti, ghibellini o guelfi che fossero, mettessero in dubbio la dominanza del papa nelle questioni temporali. E Dante, com’è risaputo, aveva una posizione piuttosto netta, con la celebre teoria dei due soli.

Ma, ritornando all’esoterismo dantesco e alle sue componenti, non solo di pitagorismo si può parlare, ma anche di correlazioni ai misteri antichi in generale, ai misteri orfici, eleusini, isiaci, così come non è improprio ipotizzare la contiguità di Dante con i movimenti ereticali della sua epoca, dai Templari ai Rosacroce, nonché con i movimenti religiosi in aperta dissonanza con la Chiesa di Roma. La lettura diretta del suo poema offre molti momenti interpretativi in senso esoterico, a incominciare dall’incontro con Virgilio. L’antico poeta gli sembra fioco, dopo lungo silenzio e, per Reghini, altro significato non è da vedere se non l’abbandono dell’antica dottrina misterica, di cui Virgilio è la massima espressione del mondo antico. I due fiumi, Lete ed Eunoé, sono per il neopagano “un evidente imprestito dai misteri orfico – pitagorici”, che richiama ad analogie con l’escatologia eleusina e la teoria platonica delle anime.[16] Allo stesso modo, tutto il viaggio di Dante, è finalizzato alla totale “palingenesi” dell’uomo, cui solo iniziaticamente si può pervenire. “Esaminando l’opera di Dante” insiste a ragione Reghini “senza preconcetti e partiti presi, si arriva a riconoscere nella rinascita spirituale mediante la metamorfosi operata dall’iniziazione il soggetto fondamentale della Commedia, la dottrina nascosta sotto il velame delli versi strani. L’allegoria dantesca ha dunque un importantissimo aspetto mistico, metafisico, veramente esoterico”.[17]  Quando il poeta, nel viaggio guidato da Virgilio, espone i suoi dubbi e il suo maestro non sempre risponde, rinviando ad altra occasione o ad altra persona la spiegazione di quelli che giustamente appaiono a Dante veri e propri misteri, ci troviamo nel pieno di un processo di iniziazione, in cui il neofita viene accompagnato nella sua opera di ricerca attraverso la decifrazione dei simboli, nella consapevolezza, che s’acquisisce passo dopo passo, che le verità ascoste anche quando saranno attinte non sarà possibile comunicarle, per l’inadeguatezza del linguaggio degli uomini, mentre si offriranno alla comprensione di chi avrà la grazia di seguire il cammino iniziatico analogo. Il suo viaggio, il viaggio dell’iniziato, non è come quello di Ulisse, il folle volo del profano, che si fida solo del suo senso pratico, delle esperienze vissute in anni di guerra e di esilio, ma sarà il viaggio della conoscenza perfetta, che è da iniziati per iniziati. E’ il viaggio dell’anima, che consente all’uomo di ritrovare se stesso nella verità, in vista della completa rigenerazione.

Si tratta allora di riflettere sui punti del poema più significativi, ai fini di una lettura correttamente esoterica. Non si potrà ovviamente esaminarli tutti nell’economia di questo lavoro. Ma è la via necessaria per rispondere alle domande iniziali sull’esoterismo dantesco, sulle sue origini e sui suoi elementi costitutivi. Svelare le allegorie, togliere il velo cioè alle immagini poetiche così potentemente create, conduce a rileggere il più grande poema della letteratura italiana nell’affrancamento da tante interpretazioni critiche ad alto tasso di arbitrarietà. Senza dimenticare che la stessa  Eneide, da Fulgenzio nel medio evo, veniva intesa allegoricamente, per cui il viaggio di Enea era considerato il viaggio stesso dell’anima verso la sua vera sede, il paradiso celeste. Quel viaggio che Dante compie, assetato di luce e di verità, consapevole di rappresentare in quel momento l’umanità traviata, corrotta e disorientata, che aspira alla salvezza rigeneratrice.

 

2 –  Struttura e simbolismo

Nella Divina Commedia simbolismo e struttura si integrano e si completano all’interno di una visione d’insieme del mondo ultraterreno. Il lettore può recepire il linguaggio simbolico, a patto che percorra lo stesso cammino del poeta, vale a dire la via iniziatica. In mancanza di tale requisito l’interpretazione del messaggio poetico sarà sempre condizionata da motivi non correlabili alla ispirazione originaria e la stessa ricezione risentirà irrimediabilmente delle convinzioni del lettore stesso, che finiranno per sovrapporsi se non per sostituirsi alle intenzioni del poeta. Se poi si aggiunge che, già vivo Dante, per il favore incontrato dalla sua opera, il potere politico e la Chiesa hanno favorito e promosso interpretazioni parziali pur ammantate di universalità, in quanto sia l’impero che il papato tendono ad imporsi come governo universale, ben si comprende come l’opera di Dante venga sottoposta ad un processo di appropriazione e di integrazione, attraverso un lavoro incessante di risemantizzazione. Si tratta allora di cercare di restituire al messaggio poetico di Dante il suo significato autentico, non solo depurandolo delle deformazioni che ha dovuto subire, ma soprattutto attingendo ai presupposti culturali che presiedono al suo lavoro poetico.

Il simbolismo dei numeri può costituire un primo approccio, in quanto consente di ricostruire le ragioni sottese alla struttura del poema, così coerente e compatta nell’unità del suo disegno creativo. Si conviene generalmente che la struttura della Divina Commedia è una struttura ternaria. L’oltretomba è caratterizzato dalla divisione nei tre regni dell’inferno, del purgatorio e del paradiso. Il 3 allora è il primo e più importante dei simboli numerici e da questo derivano tutti gli altri con significati di profondo valore mistico ed esoterico, in cui si nasconde tanta parte della tradizione iniziatica.

Ora, non solo tutto il poema è costituito da terzine, ma ciascuna cantica contiene 33 canti (solo l’Inferno, com’è noto, ne ha 34, in quanto il primo è di introduzione). Il 3 delle terzine e il doppio 3 delle cantiche rinviano a significati esoterici presenti nel grado di maestro massone e nell’ultimo grado del rito scozzese.  Inoltre in Dante sono state individuate tre coppie di  numeri ad alto valore simbolico, e cioè il 3 e il 9, il 7 e il 22 e ancora il 515 e il 666.[18] Partendo dalla prima coppia , si rilevano a prima vista rapporti strettissimi e intimi, per cui 9 è il multiplo di 3, e quest’ultimo è alla base di qualsiasi altra estrinsecazione. Basti, a tale riguardo, ricordare, oltre alla struttura ternaria, prevalente del resto nelle cattedrali del medio evo e nella stessa società del tempo, articolata in tre navate,  che 9 è il numero ricorrente nella Vita Nova, riferito a Beatrice, conosciuta a 9 anni e rivista quando ne ha 18. Non va dimenticato poi che, in quanto quadrato di 3 e pertanto triplo ternario, esso, il 9,  riflette le gerarchie angeliche e i cerchi infernali, in una sorta di simmetria fra cieli e inferi di indubbio significato simbolico. Il 3, nell’aritmosofia della massoneria moderna, erede dell’antichissima tradizione esoterica, è il numero degli anni dell’apprendista libero muratore, considerato un numero di armonia, poiché in esso si compone e si risolve il conflitto attivo nel numero due, simbolo della contrapposizione non ancora pervenuta a sintesi. Il 3 rappresenta ancora il vertice, che posto in alto sulla retta, ne tiene insieme, unificandoli, i due punti estremi ed opposti. Come origine di tutte le estrinsecazioni che si realizzano nella molteplicità dell’essere, genera uno “schema triadico”, e cioè “un tipo antichissimo di pensiero costruttivo”[19], presente anche nella concezione cristiana, propria di Dante, del Dio uno e trino. Volendo, si potrebbero instaurare correlazioni non secondarie e non fantasiose con altre religioni come quella vedica e la triade di Brama, Shiva e Visnù.

Il 3 si incontra in innumerevoli passi ed episodi della Divina Commedia, a incominciare da quello delle tre bestie che ostacolano e impediscono il cammino del poeta, richiamate da Dante come triade contraria, espressione del male e del peccato che ne consegue, alla triade del Dio amore e quindi sommo bene. In siffatta contrapposizione riveste un ruolo fondamentale la soggettività del poeta, specie se si considera che “i campi principali in cui si forma la coscienza del numero e del suo significato” rileva Cassirer “ sono l’intuizione spaziale, temporale e ‘personale’”.[20] Senza dimenticare tra l’altro che il numero “nel pensiero mitico si presenta come il mezzo dello specifico simbolismo religioso”.[21] In ogni caso il numero 3 rinvia sempre all’unità, come accade anche per le tre belve dell’Antinferno, che Dante integra nella sola lupa, che raccoglie i vizi delle altre due, e che un giorno sarà cacciata via dal mondo, grazie al Veltro “che la farà morir con doglia”. In tal modo il grande conflitto duale si risolverà con la vittoria dell’uno, che in ultima analisi non può che essere Dio, in una prospettiva palingenetica propria della concezione mistico -religiosa di Dante.

Un altro numero “sacro” è il 7,  contemplato in tutte le civiltà umane fin dalle epoche più remote. Nello stesso pensiero filosofico greco il 7 viene messo in relazione con la dea Atena da Filolao (fr. 11 Diels), “guida e signore di tutte le cose, come Dio, uno, eterno, permanente, immobile, uguale a se stesso, diverso da tutto il resto”. Nella concezione cristiano medievale il 7 è riguardato come numero universale ed assoluto: septenarius numerus est perfectionis.  Nella tradizione massonica poi presiede simbolicamente al grado di maestro libero muratore. E’ cioè il simbolo del perfezionamento cui perviene l’uomo, dal momento che coniuga in sé il ternario divino e il quaternario terrestre. Al 7 si riferisce l’ascendenza cosmogonia biblica, nel ricordo del settimo giorno, conclusivo della creazione divina del mondo e nel riconoscimento della “prima scansione temporale” nella stessa evoluzione cosmica.

In seno alla massoneria operativa il 7 richiama la Pietra Cubica, che risulta dallo sgrossamento della pietra grezza, che da imperfetta e impura diventa perfetta e inattaccabile dal vizio e dal peccato. E’ insomma simbolo di virtù. In effetti la pietra cubica è formata da sei facce e da un punto centrale, che simboleggia lo Spirito, origine delle quattro direzioni dello spazio, nord – est e sud – ovest,  l’alto e il basso, lo Zenit e il Nadir. In Dante poi il numero 7 è richiamato nella suddivisione del Purgatorio in sette cornici, ma anche nelle sette arti del trivio (grammatica, dialettica e retorica) e del quadrivio (aritmetica, musica, astronomia, geometria), e ancora nei sette pianeti, in feconde corrispondenze analogiche. Secondo Aroux, già i Catari fondavano corrispondenze tra pianeti e arti liberali, di modo che alla Luna corrispondeva la Grammatica, a Mercurio la Dialettica, a Venere la Retorica  e poi al Sole l’Aritmetica, a Marte la Musica, a Saturno l’Astronomia e a Giove la Geometria. Da rilevare qui il carattere solare dell’aritmetica e la congiunzione con la musica, che richiama indubbie ascendenze pitagoriche, pur all’interno di un contesto educativo pubblico, qual è l’insegnamento delle arti liberali. A dimostrazione del fatto che in ogni aspetto umano si può rinvenire un significato simbolico ed esoterico, ancorché non dichiarato, ma agevolmente ricostruibile. E questo è il caso di Dante e dell’impiego esoterico che effettua dei numeri.

Tornando al numero 7, lo troviamo in Paradiso, I, 39 come congiunzione di 4 e 3, quando Dante afferma che il sole sorge per gli uomini in diversi punti dell’orizzonte, ma che solo uno fra questi, e cioè quello in cui “quattro cerchi giugne con tre croci”, vale a dire nell’equinozio di primavera con la costellazione di Ariete, meglio plasma il mondo con la sua forza vivificatrice. La spiegazione astronomica del passo risiede nell’individuazione dei quattro cerchi dell’equatore, dell’ellittica, del coluro equinozionale e dell’orizzonte stesso, ma non è da respingere l’altra, giustificata dalla polisemia di tutta la Divina Commedia, che vede nei quattro cerchi le virtù cardinali, già evocate simbolicamente nelle quattro stelle di Purgatorio, I, 23, e cioè prudenza, fortezza, giustizia e temperanza, e nelle tre croci le tre virtù teologali, fede speranza e carità. In entrambi i casi l’uso del 7 come numero di coniugazione del Ternario divino e del Quaternario terrestre, nel momento in cui Dante percorre il suo cammino di perfezionamento e di rigenerazione, assume pregnante valore esoterico, ancor meglio rilevabile se non si trascura il carattere escatologico di questo numero, già presente nell’Apocalisse, in quanto traduzione della morte simbolica nel maestro libero muratore di ogni profanità viziosa e peccaminosa.

Ora questo numero, il 7, è intimamente correlato al numero 22, che, a dire di Guénon, “è l’espressione approssimativa del rapporto della circonferenza al diametro, sicché l’insieme di questi due numeri rappresenta il cerchio, che è la figura più perfetta per Dante come per i Pitagorici”.[22] Il carattere approssimativo è dato, ovviamente, dalla moltiplicazione di 7 per 3, 14, il cui risultato è appunto circa 22. Guénon, seguendo Benini, avvalora tale ipotesi con l’osservazione della forma circolare delle divisioni nei tre regni dell’aldilà, e tuttavia non trascura che il 22 corrisponde ai due movimenti elementari  della fisica aristotelica, e cioè “movimento locale rappresentato da 2 e quello dell’alterazione, rappresentato da 20, come Dante stesso spiega nel Convito”.[23] Subito dopo però non condivide la grande importanza che altri studiosi come Benini annettono a questo numero, considerando invece degno di maggiore considerazione il numero 11, di cui 22 è un multiplo. In effetti sia l’11 che il 22 si trovano associati più volte nell’Inferno, in quanto quasi tutti gli episodi occupano lo spazio di 11 o 22 strofe, anche se non mancano, e non a caso,  specie nei preludi e nei finali strofe di 7 versi. Le circonferenze delle bolgie misurano 11 e 22 miglia e il numero 11 e i suoi multipli li ritroviamo nell’endecasillabo dei versi, nelle 33 sillabe di ciascuna terzina e nei 33 o 66 versi dei gruppi di 11 e 22 strofe: il valore simbolico è innegabile. Ma vale la pena rilevare che tali numeri compaiono in altri contesti iniziatici: 22 sono le sillabe dell’alfabeto ebraico, 33 sono gli anni di Cristo vissuti sulla terra, ma 33 è anche l’età simbolica dei Rosa Croce e 33 è l’ultimo grado del Rito Scozzese Antico e Accettato. Se poi ci si vuole rapportare al mondo islamico, 66 in arabo è il valore numerico del nome di Allah e 99 il numero dei suoi maggiori attributi. Stando a Guénon, Dante si serve del numero 11 come “segno di riconoscimento”, [24] rivolto a quanti fossero in grado di togliere il velame che gli eventi della sua età lo costrinsero a stendere sui suoi versi. Non c’è dubbio infatti che la prima cantica andò incontro a radicali modifiche di carattere strutturale, tra il 1300 e il 1314, periodo in cui si ebbero la soppressione dell’Ordine dei Cavalieri Templari (1312) e la sua distruzione definitiva (1314), in seguito all’azione congiunta di Filippo il Bello e Clemente V. Il riferimento all’Ordine fondato da Hughes des Pains si ritiene contenuto in Purgatorio, XX, 91-93, con la profezia di Ugo Capeto:

Veggio il nuovo Pilato sì crudele

                 che ciò nol sazia, ma, sanza decreto,

                 porta nel Tempio le cupide vele.

 

E ancora di più nella strofa successiva:

 

O Segnor mio, quando sarò io lieto

                a veder la vendetta che, nascosa,

               fa dolce l’ira tua nel tuo secreto?

 

Qui si parla di vendetta intesa come giustizia punitiva di un atto violento ed esecrabile, che costrinse a suo tempo gli adepti a ordini derivati dai Templari o comunque ad essi riconducibili ad adottare pratiche di dissimulazione per sfuggire alle persecuzioni ordinate contro l’ordine del Tempio. In questo clima Dante avrebbe pensato di apportare modifiche all’Inferno, ideando segni di riconoscimento anche attraverso i simboli numerici. Così “le divisioni del poema dove il numero 11 appariva più chiaramente dovevano essere, non soppresse, ma rese meno visibili, in modo da poter soltanto essere ritrovate da coloro che ne avessero conosciuto la ragion d’essere ed il significato”.[25] Forse perché Dante era un Templare? Prima di affrontare tale questione, è necessario procedere ad analizzare altri numeri che Dante impiega con indubbie intenzioni esoteriche.

I numeri 515 e 666 ne sono un’ulteriore conferma. Con questi Dante fonda delle corrispondenze significative tra le diverse profezie del poema, specie di quelle raccontate nella prima cantica. Secondo Benini sono 666 i versi che intercorrono tra la profezia di Ciacco e quella di Virgilio, 515 invece quelli che separano la profezia di Farinata da quella di Ciacco, e ancora 515 versi si trovano tra la profezia del suo esilio ad opera di Brunetto Latini e quella di papa Nicola III (Inferno, XIX) sull’arrivo di Bonifacio VIII e Clemente V,  e 666 tra la profezia di Farinata e l’altra di Brunetto Latini.  Ora che 666 sia nell’Apocalisse il numero che indica la bestia e che il 515 debba invece riferirsi al Veltro, lascia pensare ad una vera e propria opposizione all’interno del simbolismo dantesco. Andare oltre questa contrapposizione potrebbe indurre a conclusioni arbitrarie, come quelle che pretendessero di instaurare un’analogia tra il Veltro, che è un cane, e il Khan dei Tartari, per poi arrivare a Cangrande della Scala.[26] Più suggestiva, anche  se non proprio convincente,  appare l’ipotesi del Benini, secondo la quale se si trascrive in lettere latine il numero 515 ne risulta l’acronimo DXV, che potrebbe significare Dante Veltro di Cristo. Il poeta insomma alluderebbe a se stesso come nuovo messia, inviato da Dio ad eliminare dal mondo la lupa, la più malvagia delle belve. Ma se poi si dispongono diversamente le stesse lettere, si ottiene la parola DUX e si avvalora l’ipotesi identificativa del Veltro con l’imperatore Enrico VII di Lussemburgo.[27]

Sarebbe bene non dimenticare comunque che la Divina Commedia, in quanto opera di poesia esoterica, non può rinviare a identificazioni certe e indiscutibili, per la natura stessa che il linguaggio esoterico deve assumere, non fosse altro che per le particolari condizioni politiche in cui il poema nasce e per la necessità di “velare” il racconto in modo che solo gli iniziati possano comprenderne il reale significato. Così come sarà opportuno ritornare sui numeri che Dante impiega simbolicamente, mentre è tempo di considerare se Dante fu un fratello templare.

 

3. Il templarismo di Dante

 “Fidei Sanctae Kadosh, Imperialis Pincipatus, Frater Templarius”. Così è stato letto l’acronimo F.S.K.I.P.F.T riportato sul rovescio di due medaglie conservate nel Museo di Vienna, una delle quali dovrebbe rappresentare Dante. L’interpretazione delle prime tre lettere, proposta dall’Aroux, e cioè Frater Sacrae Kadosh, è ritenuta scorretta dal Guénon, in quanto “non dà un senso intelligibile”.[28] Più corretta è l’altra, e cioè Kadosh della Santa Fede, per cui Dante è da considerare uno dei membri più influenti di quello che doveva essere un Terzo Ordine dei Templari. Si tratta con tutta probabilità della celebre setta dei Fedeli d’Amore. Kadosh indica in ebraico l’iniziato “consacrato” o “santo”, e in tal senso il termine viene usato tuttora nei gradi più alti della Massoneria scozzese. La contiguità di Dante con l’Ordine dei Templari viene ritenuta confermata e avvalorata dal fatto che il poeta, a conclusione del suo viaggio di rigenerazione spirituale, beneficia della guida di Bernardo di Chiaravalle, autore della regola dei Templari, richiesta direttamente dal fondatore dell’ordine monastico – militare in Terrasanta, Hugues de Payns e ratificata nel 1135, nel concilio di Pisa, da papa Innocenzo III, e che Dante potrebbe conoscere, anche se nell’Epistola XIII, 30 cita soltanto il De Consideratione. Di particolare interesse per il templarismo di Dante è il trattato In lode della nuova milizia, composto da Bernardo tra il 1135 e il 1137, con il quale mitiga le teorie templari di bellum justum di derivazione agostiniana; per questo la regola stessa è stata definita “la carta bernardiana per la limitazione della violenza”,[29] che in ogni caso conferma il carattere di servizio militare dei Templari in difesa della Chiesa e della religione cristiana contro i Saraceni.

Al tempo di Dante, con l’annientamento dell’Ordine, dopo il contestato Concilio di Vienne del 1310 e la bolla di Clemente V del 22 marzo 1312, lo spirito crociato é piuttosto ridotto e fiaccato, restando però negli ordini derivati come collante insostituibile nel vagheggiamento dello spirito cristiano originario, che la Chiesa tende a considerare eresia.

Certo, ritornando alla scritta sul rovescio della medaglia di Dante, non si può negare che l’Imperialis Principatus non costituisce solo il riferimento alla parte politica in cui milita il poeta, ma “bisogna pure notare che il “Santo Impero” ha un significato simbolico, e che ancora oggi, nella Massoneria scozzese, i membri dei Supremi Consigli sono qualificati dignitari del Sant’Impero, mentre il titolo di “Principe entra nella denominazione di un numero abbastanza grande di gradi”.[30] Insomma in Dante rivive la tensione al rinnovamento radicale dell’umanità, per il quale si costituisce la milizia santa, richiamata nel Paradiso.

Ma c’è dell’altro. Si ripropone cioè l’intricata e complessa vicenda dei “Fedeli d’Amore”, che qui non si può richiamare se non per brevi cenni. Che i Fedeli d’Amore siano una derivazione delle “corti d’amore” provenzali è ipotesi che gli studiosi in generale accettano, ma con alcuni distinguo non trascurabili. E’ stato Luigi Valli, uno dei più eminenti critici esoterici di Dante, a sostenere “che le corti d’amore di Provenza furono spessissimo mascherature di riunioni settarie, attraverso le quali i trovatori albigesi conducevano la loro propaganda e la loro lotta”.[31]L’ipotesi settaria dei “serventi d’amore” era stata già avanzata da Aroux (accusato anche per questo di plagio delle ricerche di Gabriele Rossetti), il quale considerava, già nel 1858, le corti d’amore “des réunions protestantes», sotto il patrocinio di un signore o di una dama di alto lignaggio, ma presiedute da un Perfetto non di rado ministro albigese di chiese di montagna, che poteva anche essere una dama. E per Aroux questo avveniva per uso simbolico « auquel font encore allusion, dans la maçonerie, les deux paire de gants d’homme e de femme ».[32] Non è difficile credere per Aroux che questo avvenisse per deviare il sospetto che praticassero un culto non riconosciuto e vietato, in cui si discuteva di questioni religiose in opposizione all’ortodossia dominante. Le corti d’amore allora altro non erano che « des conciles provinciaux où étaint convoqués les pasteurs opposants, albigeois ou vaudois, pou conferer sur les besoins de leur église ».[33] Se le congetture settarie di Aroux ( e di Rossetti ancor prima) non sono senza reale fondamento, di certo riflettono le condizioni in cui venne a trovarsi tutta la Linguadoca dopo la crociata contro gli Albigesi (Albi con Tolosa e Carcassonne era uno dei centri più importanti dell’eresia catara, detta anche albigese), scatenata nel 1209 per volere di Innocenzo III, in esecuzione della condanna del 1165 in occasione del Concilio riunito proprio ad  Albi. Tutta la regione si avviò verso un’inarrestabile decadenza economica, politica e religiosa. La Linguadoca, come i regni spagnoli, di Lion, Aragona e Castiglia, era un principato indipendente, nel quale “fioriva una cultura che a quel tempo era la più avanzata e raffinata dell’intera cristianità, con l’unica eccezione dell’Impero bizantino”.[34] Dopo la Crociata non venne meno la repressione di quella che veniva chiamata « eresia catara” diffusa in altre regioni d’Europa con nomi diversi: albigese in Francia, Patarini in Italia, ad esempio. Va però evidenziato che non si trattava di una vera e propria chiesa, organizzata secondo una propria teologia e dottrina in obbedienza ad un’unica guida spirituale e politica. C’erano piuttosto diverse sette di eretici, ciascuna con un proprio indirizzo religioso, accomunate però dal rifiuto della Chiesa di Roma e del suo apparato gerarchico, cui non veniva riconosciuto alcun potere di intercessione tra Dio e l’uomo. Credevano invece nel rapporto diretto tra Dio e l’uomo, in una fede maturata attraverso esperienze mistico – religiose. Non è qui il caso di riprendere le tesi o le opzioni teologiche albigesi, ma è necessario rilevare che, dopo la Crociata durata 40 anni, gli eretici furono costretti alla clandestinità; e questo spiegherebbe, secondo Aroux, perché le “corti d’amore” provenzali potevano essere vere e proprie organizzazioni settarie, dove il linguaggio d’amore altro non era che una dissimulazione delle reali questioni dibattute nei loro incontri.

Ma che cosa c’entra tutto questo con Dante? “L’ira antichiesastica e antipapale” risponde Ricolfi “aveva dunque radici vaste e profonde nella poesia trobadorica; né si spense con Dante”.[35] Ed è per questa via che il poeta poté essersi accostato al templarismo.  La sua ira contro la chiesa di Roma è indotta dalla degenerazione di questa, causata dalla donazione di Costantino, che ha trasformato la Ecclesia Spriritualis in Ecclesia Carnalis. In questa posizione non è da trascurare l’influenza che il poeta avverte delle tesi di Gioacchino da Fiore e, più in generale, dei francescani spirituali. Inoltre è consapevole che la poesia d’amore cantata allegoricamente alla corte di Federico II a Palermo altro non è che devozione alla sapienza in chiave gnostica. Ora Dante, nel Paradiso, X, dopo l’omaggio a Tommaso d’Aquino, manifesta grande rispetto per l’avversario principe del dottore della Chiesa, e cioè per Sigieri di Brabante (v. 136), la cui dottrina, attraversata da concetti averroistici, era presente negli adepti all’Ordine dei Templari. Per di più Dante non è rimasto estraneo, per il tramite di Brunetto Latini,  al fenomeno dell’espansione degli studi filosofici dalla Spagna musulmana alla Provenza, dominata, come s’è detto da fermenti antipapisti, dove i canti per la Sofia, la Shekinah, assumono la forma della canzone trobadorica d’amore.  Combinando tutti questi elementi, e tenendo presente che in Provenza, attraverso gli albigesi, è radicato lo spirito templare, non si può escludere che le dissimulazioni nelle corti d’amore velassero l’adesione se non all’Ordine vero e proprio agli ordini derivati dai Templari, come poteva essere il Terzo Ordine dei Fedeli d’Amore,al quale Dante appartiene. E con lui, su posizioni differenti che qui non conviene riportare, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e altri suoi amici fiorentini.

In ogni caso “l’appartenenza almeno ideale” all’Ordine dei Templari informa molti luoghi della Divina Commedia. Il poema è stato infatti inteso anche come “dottrina templare della vera felicità”, dove la vera donna, amata dal poeta in giovinezza, è la “gnosi templare”. “La spiritualità templare finì per coincidere in larga misura con la devozione all’amore sapienziale”.[36]

Ovviamente i riferimenti templari nel poema dantesco non sono espliciti e inequivocabili, per le ragioni già esposte. E questo ha portato a interpretazioni di tipo cabalistico e aritmologico, come il numero 13, non sempre condivisibili, e che comunque qui si preferisce non considerare. Si tratta pur sempre di allegorie, che autorizzano però interpretazioni esoteriche. Il Veglio di Creta (Inferno, XIV, 103-114) si presta a considerazioni interessanti. Per Luigi Valli è il simbolo della miseria umana; si trova a Creta dove si rifugiò dopo un naufragio Enea, simbolo dell’impero senza la Croce, e dove si fermò anche San Paolo, simbolo della Croce senza l’impero, e cioè l’Aquila.[37] Qui la simmetria croce-aquila è fin troppo evidente. La statua del vecchio di Creta è spaccata e lacerata, a simboleggiare la divisione tra impero e papato, tra croce appunto e aquila, mentre per Dante l’armonia universale richiede la compresenza di queste due forze, della croce, cioè della vita contemplativa, e dell’aquila, ossia della vita attiva, cui devono corrispondere la chiesa ideale e l’impero ideale. La statua somiglia a quella apparsa in sogno a Nabuccodonosor, il distruttore del tempio di Salomone nel 588  a. C., per cui simboleggia la soppressione dell’Ordine dei Templari ad opera del Nabuccodonosor infernale. Se poi si ricorda che la ricostruzione del tempio di Gerusalemme venne operata, secondo la cronologia ebraica,  da Zorobabel nel 515 a. C., bisogna riprendere il tema del numero che ricorda il DUX e che rinvia all’imperatore, quello che un giorno restaurerà la statua del veglio di Creta. Simbolicamente questo avverrà quando si incontreranno il Veltro di Virgilio e il DUX di Beatrice, la Chiesa rigenerata e l’impero,  l’aquila e la croce, appunto. Senza dimenticare che la sede dei Templari era a Gerusalemme, ai cui antipodi è posto il paradiso. Nel paradiso terrestre poi dante riceve la tiara e la corona imperiale, simbolo dei due poteri che gli schiudono la porta del paradiso celeste.

Nell’angolo nord- est, delimitato dai fiumi Lete ed Eunoé, Dante incontra Beatrice, nel punto corrispondente all’angolo della città di Gerusalemme, dove si trovano i resti del tempio.  E ancora Beatrice, in Purgatorio, xxx, 11,  viene salutata con Veni sponsa de Libano, versetto del Canto dei Cantici, come donna allegorica, che nel medio evo rappresentava la Chiesa Spirituale. Nel canto XXXIII della stessa cantica, con l’incipit dei salmi 78 e 79 (Deus, venerunt gentes e Polluerunt templum sacrum tuum) l’allusione alla distruzione del tempio è innegabile, così come è fin troppo chiara la risposta di Beatrice, tratta dal Vangelo di Giovanni (Modicum, et non videbitis; modicum et vos videbitis me) che fa riferimento  alla speranza di veder risorgere l’Ordine. Beatrice allora è l’allegoria della gnosi templare con la quale Dante auspica la ricostruzione del tempio. A tal proposito è bene ricordare che di donne allegoriche è popolata la poesia del dolce stilnovo, in continuazione della rappresentazione della sapienza come femminile.  Un culto di origine persiana, sconfessato dall’ortodossia islamica, praticato nella poesia mistica dei sufi.[38] A questo proposito non è consentito procedere se non per brevi cenni, ma senza rinunciare ad affermare che una comune origine gnostica collega albigesi, templari e sufi. In Italia le prime donne allegoriche nascono a Palermo nella scuola poetica di Federico II, e il loro nome è quasi sempre Rosa, per poi espandersi in Toscana e in altre regioni italiane,  dove il dolce stil novo accomuna molti tra i poeti della setta dei Fedeli d’Amore. E qui il linguaggio diventa sempre più esoterico, una volta venuta meno l’autorità imperiale di Federico.

Nel canto dell’eros spirituale si vuole vedere una fusione tra neoplatonismo e aristotelismo. La questione andrà senz’altro ripresa, ma non in questa sede, dove ci si limita solo a rilevare che “Una catena iniziatica ininterrotta passa da Ermete Trismegisto per Pitagora, Platone, Seneca, Plotino e Giambico fino ai Fedeli d’Amore ed ai poeti ghibellini siciliani, ed attraverso i Templari fino all’accademia platonica di Firenze”.[39] Dante allora può essere considerato appartenente all’Ordine del Tempio almeno idealmente, non essendo possibile provare la sua appartenenza effettiva per il carattere segreto della sua setta. In fin dei conti la scelta dei simboli della Croce e dell’Aquila è di origine templare. Infatti l’insegna del gran maestro templare è formata da  un’aquila sormontata da una croce e da due stelle, poggiata su una roccia.

 


4 – Contiguità con ermetismo e Rosa Croce

 Il riferimento ai Templari  ritenuto piuttosto esplicito è quello com’è noto dell’inizio del XXXI del Paradiso,

                                In forma, dunque,  di candida rosa

                                 Mi si mostrava la milizia santa,

                                 che nel suo sangue Cristo fece sposa.

Già prima Beatrice, indicando “le bianche stole” degli eletti o dei perfetti, sembra alludere all’abito dei Templari e la “milizia santa” e la “candida rosa” rinviano alla trasformazione del templarismo, in seguito alla distruzione dell’Ordine, in Rosicrucianesimo. Per il solito Aroux, il cielo dello stelle fisse, l’ottavo, è il cielo dei Rosa Croce, dei Perfetti cioè, che sono vestiti di bianco. Il simbolismo rivela analogie con  quello dei Cavalieri di Heredom o Ordine dei reali di Scozia, detti anche Cavalieri dell’Aquila e del Pellicano.[40] E ancora nei canti XXIV e XXV del Paradiso ricorrono il triplice bacio del Principe Rosa Croce, il pellicano, le tuniche bianche, le tre virtù teologali di Fede Speranza e Carità, mentre va ricordato che la candida rosa è il fiore simbolico adottato, oltre che dalla Chiesa di Roma come Rosa mistica delle litanie, dalla stessa Chiesa di Tolosa, e cioè dagli Albigesi “come il tipo misterioso” dell’assemblea generale dei Fedeli d’Amore, la setta cui appartiene Dante.[41]

Il numero delle virtù teologali ci fa ritornare al tre, onorato dagli Scozzesi trinitari, rappresentato anche nei tre angoli del Delta, per i cristiani simbolo della divinità. Non è questo né il luogo né il momento di approfondire taluni gradi del Rito Scozzese, mentre è tempo di considerare sia pure per grandi linee la connessione dell’ermetismo con gli ordini di cavalleria. Si tratta sempre di allusioni, che solo l’esperienza iniziatica consente di cogliere. Dante divide il suo poema in tre parti, come accade nell’iniziazione di Iside, L’inferno ci fa conoscere le nostre colpe, il Purgatorio come possiamo emendarcene e il Paradiso ci fa vedere Dio, conquista suprema della gnosi anche per i Templari. Ma anche il sistema iniziatico dei Pitagorici prevedeva tre fasi: conoscenza delle colpe, purificazione e perfezione con epifania di Dio. Per questo Virgilio viene scelto come guida da Dante, perché era un iniziato, come accadeva ai suoi tempi a quasi tutti gli intellettuali delle classi colte. Un iniziato ai misteri di Iside, non ignorati né dal pitagorismo né dall’ermetismo. In tali misteri ritorna il numero sette, cioè nei sette alberghi simbolici, corrispondenti nel Purgatorio alle sette cornici della purificazione, prima di essere ammesso alla conoscenza suprema, alla Gnosi.[42] Ed è oltremodo significativo che Dante nel corso del suo viaggio sviene e cade come un corpo morto, chiara allusione al superamento graduale della profanità avvolta nelle tenebre dell’ignoranza in vista della conquista della luce della gnosi. E a svegliarlo dal sonno sarà Lucia, il simbolo della luce, che avvia alla saggezza, mentre cresce sempre più in lui il desiderio di conoscere : “l’anima mia gustava di quel cibo/ che, saziando di sé, di sé asseta” (Purg., XXXI, 128-129). E il numero sette si ripresenta nelle sette luci della tradizione essenica, da cui proviene Gesù, richiamate poi da Dante nelle virtù di cui abbiamo detto, cardinali e teologali;  nella stella dei sette raggi e nel passaggio per i sette pianeti, dove fa risplendere quello di Venere, “lo bel pianeta che ad amar conforta”, in quanto amore di conoscenza.  E la Stella dei Sette Raggi è il simbolo più puro di tutte le iniziazioni, per cui anche in questo caso Dante mostra di seguire con grande fedeltà la tradizione.[43] Nel Purgatorio, I, 29-34, parlando delle quattro stelle del polo antartico, dice che mai furono viste prima se non dalla prima gente. Anche questa è un’affermazione di sapore esoterico. La prima gente non è costituita da Adamo ed Eva o in generale dai primi uomini, come si ripete stancamente da decenni, ma si riferisce alla tradizione essenica, quando i figli di Jafet riconobbero nella Croce del Sud il simbolo della Vita e dell’Amore, che più tardi verrà riguardato come simbolo del Mistero della Trinità dominata dall’Unità. E il segno velato dei Pesci indica ancora il rinnovamento del cosmo e l’aspirazione dell’uomo alla rigenerazione. Ecco perché farà rispondere da Virgilio a Catone che lui, Dante, “non vide mai l’ultima sera”, ma che l’avrebbe vista se non fosse stato affidato al poeta latino, per avviarlo sul cammino della conoscenza retta e pura, che altro non è che la gnosi.[44]

Ma è tempo di parlare di Beatrice. Non è la teologia, come si vuol far credere. Rappresenta invece la Sapienza Divina, mentre Virgilio ha rappresentato per Dante la sapienza umana. Con Virgilio, dante ha potuto liberarsi del peccato e giungere a purificarsi. Poi però ha bisogno di andare oltre e solo Beatrice può guidarlo, dal momento che ha acquisito le conoscenze proprie di chi ha raggiunto i più alti gradi dell’iniziazione, immedesimando il proprio spirito in Dio. Ormai nessun velo gli offusca più la vista e può guardare fisso nel sole. Ma prima –racconta (Purgatorio, XXX, 19-24)

 

sovra candido vel cinta d’uliva

                                       Donna m’apparve sotto verde manto

                                      vestita di color di fiamma viva

E’ Beatrice, cinta d’ulivo, l’albero sacro a Minerva, la dea della sapienza. E’ vestita di rosso, con un mantello verde e un velo bianco. Sono i colori della scienza pura (il bianco), della speranza (il verde) dell’amore di conoscenza e dell’ardore di carità (il rosso).  Quella conoscenza che dante aveva acquisita tra i Fedeli d’Amore e poi trascurata, ma che ora si muove da Beatrice verso di lui “per occulta virtù”. E grazie a lei potrà penetrare i misteri più profondi, anche se non potrà mai riferirli, per la loro natura esoterica; misteri che restano impenetrabili a chi non è iniziato, a chi “grazia non serba”, dice il Poeta.[45]  Viene confermata così l’interpretazione allegorica di Beatrice, “equivalente della sapienza metafisico – misterica tramandata nei millenni dai pitagorici agli ermetici fino alla cultura trobadorica”.[46] La donna amata da Dante non era pertanto una persona reale, storicamente identificabile, come crede anche Aroux, ma si ipotizza che “sottintenda l’idea di Intelligenza attiva sulla base delle formulazioni che il concetto ebbe in ambito aristotelico – averroistico”.[47] E secondo altri ricorre “l’identificazione della Mistica Sapienza con la Donna, identificazione verificabile negli scritti del neoplatonismo e dello gnosticismo”,[48] considerata poi metaforicamente come Amore dagli scolastici. Temi poi ripresi da Giovanni Pascoli, in Minerva Oscura (1898), Sotto il velame (1900) e La Mirabile Visione (1902), che andrà incontro all’opposizione della critica dantesca di matrice positivista.

Ma c’è ancora in altro episodio che vale la pena riprendere qui, ed è quello del Grifone. Si vuole che con questo simbolo Dante voglia rappresentare le due nature di Cristo. Ma il poeta sta parlando  di se stesso in questo passo: non potrebbe essere irriverente riferirsi a Gesù? E’ più plausibile invece pensare che  in Purgatorio, XXIX, 108,XXX, 8 XXXI, 80/120 e XXXII, 26 e sgg., voglia riportarsi agli  antichi misteri, come quello della Sfinge, con la variante della testa dell’aquila e la conferma del corpo de leone. A significare l’animalità originaria e la virtù di contemplare il sole senza esserne abbagliato, come accade all’iniziato che ha acquisito la Luce della Sapienza.

Così il Poeta può finalmente contemplare Dio. Un punto luminoso da cui s’irradiano tutti gli aspetti dell’universo, squadernati in una luce divina, che Dante non potrà mai riferire, per l’impotenza del linguaggio umano. Anche nelle scuole ermetiche le anime degli eletti roteano nella regione solare, a seconda del grado di perfezione. Intorno a questo punto luminoso, Dante fa girare nove cerchi concentrici, simbolo dei tre mondi della natura, e cioè il celeste, l’umano e il terrestre. Ciascuno di questi tre mondi si compone a sua volta di altri elementi, corrispondenti alla materia, alla forza e ai ritmi che derivano dall’unione della forza con la materia. Sicché “Cielo, Uomo, Terra confusi nel medesimo amore è il significato del nove”[49]. Ma Dante, com’è risaputo, non definisce Dio. E in questo è in armonia con tutte le scuole iniziatiche, con l’ermetismo, il pitagorismo e lo zoroastrismo. In quanto incorporeo e invisibile non può essere definito dai nostri sensi; e perché eterno non può essere dimensionato secondo la nostra cronologia. Ad alcuni spiriti eletti può concedere la facoltà di trasumanare, elevarsi cioè  al di sopra dei limiti umani e accostarsi a contemplare Dio. E’ la vicenda toccata a Dante, che dovrà velare la sua visione di allegorie tali che, per la loro natura squisitamente esoterica, potranno essere comprese solo dagli iniziati ai grandi misteri dell’antichità.

Crotone, 21 maggio 2009

Enrico Esposito

 


[1] “Nuovo Patto”, sett.nov. 1921, poi in Arturo Reghini, Paganesimo,pitagorismo, massoneria, a cura dell’Associazione Pitagorica, Furnari (Messina), 1986, pp. 151 – 158

[2] Arturo  Reghini, op.cit., p. 151

[3] ibidem

[4] ibidem

[5] ibidem

[6] Arturo Reghini, op. cit., p.152

[7] René Guenon, L’esoterismo di Dante, Roma, Atanor, 1976, p. 7

[8] Arturo Reghini, op. cit., p. 151

[9] René Guenon, op.cit., p. 17

[10] René Guenon, op. cit., p. 8

[11] Eugene Aroux, Dante hérétique, revolutionnaire et socialiste. Revelation d’un catholique sur le moyen age, Paris, Renonard, 1854, rist. 1976; prima di lui Gabriele Rossetti, Sullo spirito antipapale che produsse la Rirfoma e sulla segreta influenza ch’esercitò nella letteratura d’Europa e specialmente in Italia come risulta da molti suoi classici, massime da Dante Petrarca e Boccaccio, Londra 1932

[12] René Guénon, op.loc.it.

[13] René Guénon, op. cit., p. 9

[14] René Guénon, ibidem

[15] Arturo Reghini, op.cit., p. 152

[16] Arturo Reghini, op. cit., p. 154

[17] Arturo Reghini, op.cit., p.155

 

 

 

 

 

[18] Rodolfo Benini, Per la restituzione della Cantica dell’Inferno alla sua forma primitiva, in “Nuovo Patto”, sett.nov. 1921, pp. 506 e sgg.

[19] Agnes Arber, Il molteplice l’uno, Roma,  Astrolabio, 1969

[20] Ernst Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, II, La Nuova Italia, Firenze, 1964, p. 202

[21] ibidem

[22] René Guénon, op. cit., p. 56

[23] ibidem

[24] René Guénon, op. cit., p. 57

[25] René Guénon, op. cit., p. 59

[26] René Guénon, op. cit., p. 62, nota 13

[27] René Guénon, op.cit., p.62

[28] René Guénon, op. cit., p.13

[29] Barbara Frale, I Templari, il Mulino, Bologna, 2004, p. 39

[30] René Guénon, op.cit., p.14

[31] Luigi Valli, Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore, Optima, Roma, 1948, p. 44

[32] Alfonso Ricolfi, Studi sui “Fedeli d’Amore”, Luni Editrice, Firenze, 2006, p. 36

[33] Alfonso Ricolfi, ibidem

[34] Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln, Il Santo Graal. Una catena di misteri lunga duemila anni, Oscar Mondatori, Milano, 2003, p. 37

[35] Alfonso Ricolfi, op. cit., p. 105

[36] Zenit Speaker’s Corner, Dante e i Templari, in www. Zen.it, p. 1

[37] Luigi Valli, Lo schema segreto del poema sacro, Bastogi, Foggia, 1998, pp.44-47

[38] Cfr. Miguel Asin Palacios, Dante e l’Islam. L’escatologia islamica nella Divina Commedia, Net, Milano 2005; cfr  “Hiram”, 2/2009, numero monografico sull’esoterismo islamico

[39] Zenit Speaker’s Corner, cit., p.6

[40] René Guenon, op. cit., pp. 24-25

[41] René Guenon, op. cit., p. 26

[42] Ae. Philaletes, L’esoterismo Rosacroce nella Divina Commedia, Bastogi, Foggia, 1986, pp. 24-25

[43] Ae, Philaletes, op. cit., p.30

[44] Ae. Philalates, op. cit., p.43

[45] Ae. Philalates, op. cit., p.54

[46] Luigi Della Santa, Interpretare Dante: una storia infinita, in Sotto il velame. Dante fra universalità esoterica e universalismo politico, Mimesis, Milano, 2007, p. 11; Alfonso Ricolfi, op. cit., pp. 126-129

[47] Luigi Della Santa, op. cit., p.12

[48] Luigi Della santa, op. cit., p. 13. vedi anche Francesco Perez, Beatrice svelata, 1865

[49] Ae. Philaletes, op. cit., p.70