L’ira di Dio? E’ degli uomini!

“L’ira di Dio/é degli uomini” diceva Giuseppe Cupìdo di Scalea, cultore di poesia gnomica. Il sospetto di Feuerbach che l’uomo abbia creato Dio in questi giorni sembra confermato dalle orripilanti notizie di una guerra insana come tutte le guerre. E come tutte le guerre ripete il mantra dell’ira di Dio, per scaricarsi di tutte le colpe sanguinose che sono solo colpe degli uomini. E’ stato sempre così: Elena rifiutava di vedersi attribuita la colpa della guerra di Troia. E’ una dea, Venere, andava dicendo nella città di Paride, che mi ha indotto a lasciare Menelao e a vivere da concubina in un paese straniero. “Io, la più bella ma anche la più debole creatura, che cosa avrei potuto fare contro il volere di una Dea così potente? Una guerra è scoppiata dopo il mio rapimento, ma non sono stata io a volerla.” E “Dio lo vuole!” strepitavano i crociati lanciati alla conquista di Gerusalemme. L’uomo sembra che sia condannato a combattere guerre da una forza superiore e invincibile: lui, sarebbe solo lo strumento impotente di una volontà divina incomprensibile e incommensurabile. Se la guerra è santa, che cosa può fare lui, poveruomo? Non gli resta che pregare di uscirne vincitore, se non in questa in un’altra guerra. E così il mondo vive nella guerra e per la guerra, da millenni. E non è mancata poi la sacralizzazione della guerra stessa, tanto che agli inizi degli anni Settanta del Novecento appariva come un’eresia inaccettabile che qualcuno, come Franco Fornari, proponesse la dissacrazione della guerra, facendo della polemologia non la scienza della guerra, ma la scienza della pace. E tutte le istanze irenistiche venivano presentate come irrealistiche in quanto avanzate da ingenui sognatori di un mondo senza guerra, un mondo di pace perpetua, da Erasmo a Immanuel Kant e Bertrand Russel. Il regno della pace non è di questo mondo, si obbietta da sempre, e allora “chi per la patria muor vissuto è assai, pulchrum este pro patria mori, in un dilagare di slogan contro le utopie a favore della realtà cruda della distruzione che non conosce confini. Qualcuno si chiedeva chi avesse per primo inventato le armi (Tibullo, Quis fuit horrendos qui primus protulit enses?), qualche altro, vedi Gastone Bouthoul in Francia ai tempi della seconda guerra mondiale, definiva la guerra un infanticidio differito, richiamando il mito dei padri che come Saturno divorano i figli per non dover cedere loro il potere un giorno e ricordando che in guerra sono i giovani a morire, appunto. In questi giorni poi mentre intere città ucraine vanno scomparendo si levano grida inorridite e si invoca la pace, cioè un’altra pausa che prelude ad un’altra guerra. E intanto faranno un deserto in Ucraina e la chiameranno pace, direbbe sant’Agostino. Dalla pax romana alla pax russa, si farà fatica a individuare un vincitore, mentre appare evidente a tutti che sarà una sconfitta per l’umanità intera. Per le strade martoriate da Kiev a Mariupol, da Donesk a Leopoli una fiumana ininterrotta di profughi si va disperdendo per tutta l’Europa con tutto il suo carico di disperazione e di miseria. E saremo tutti costretti ad accettare l’interruzione temporanea della guerra per evitare che il conflitto degradi precipitosamente verso l’uso delle armi nucleari. Si avverte dappertutto la sensazione che tale sarà l’esito finale e sarebbe la fine davvero per tutti, l’azzeramento di tutte le ambizioni, di tutti i desideri di potenza, ma anche di tutte le aspirazioni ad un mondo diverso, in cui la pace non sia una precaria sospensione della guerra ma un dato distintivo e permanente nei rapporti internazionali.

Enrico Esposito