Una marcia sempre più marcia

Non è della marcia su Roma del 1928 che si vuole parlare, ma di quella lunga, lenta e costante in epoca repubblicana. I fascisti italiani capiscono fin dall’inizio che possono svolgere un ruolo determinante specialmente dopo la fine dell’epoca degasperiana. L’anticomunismo è il loro cavallo di Troia. La Democrazia Cristiana, che dal 1953 non ottiene la maggioranza in parlamento come dopo le elezioni del ’48, da sola non ce la farebbe mai a fronteggiare l’avanzata delle forze di sinistra ad egemonia comunista. Nemmeno la scissione socialista del 1947, quella di Giuseppe Saragat, funzionale alla cacciata di socialisti e comunisti dal governo, si rivela utile ed efficace in chiave anticomunista e maccartista. E’ qui che i neofascisti dell’appena nato Movimento Sociale Italiano trovano la breccia per cui passare nel muro ancora in costruzione e sempre incompleto dell’antifascismo. Nell’agosto del 1953 viene incaricato di formare il nuovo governo, Giuseppe Pella, un personaggio di seconda fila, ma che si dimostra abile nell’intrecciare alleanze in parlamento. Il suo sarà un governo monocolore, ma tra le forze che lo sostengono figurano i monarchici, pur appesantiti dalle responsabilità di casa Savoia nella conquista violenta del potere da parte dei fascisti nell’ottobre del 1922. Alla DC i voti fanno comodo ed è convinta che sono come il denaro e perciò non puzzano (pecunia non olet, suffragia etiam). Il governo Pella rimane in carica fino al gennaio del 1954, un governo incolore, che serve a tener caldo il posto a qualche altro. E infatti arriva Mario Segni, cavallo di razza come si diceva allora della DC, che nel luglio del 1955 forma un governo sostenuto dal suo partito, ovviamente, dai socialdemocratici di Saragat e dai liberali. Resterà in carica fino al maggio 1957, quando gli subentrerà Adone Zoli. E’ il mese di maggio e qualche giorno prima viene eletto presidente della repubblica, contro le indicazioni della stessa DC, Giovanni Gronchi, anche con i voti dell’estrema destra missina. Lo stesso Zoli si trova con i voti di fiducia di monarchici e missini, che accetta non certo di buon grado. E’ rimasta celebre la sua girata di spalle, ma per indicare il sottoterga, rivolto ai banchi della destra estrema. Poi si riaffaccerà Segni a palazzo Chigi, accompagnato dal fido Pella e i giornali d’opposizione si divertiranno a invertire le iniziali dei due cognomi e Segni e Pella diventeranno Pegni e Sella per sbeffeggiare la loro subalternità all’atlantismo made in USA. E’ un governo che vivacchia senza lasciare tracce memorabili, è solo gestione del potere per il potere, mentre il profluvio antisocialista e anticomunista non conosce sosta. Fino ad arrivare al famigerato governo Tambroni nel luglio del 1960, che approda al Chigi dopo il voto di fiducia anche dei neofascisti. Ma questo provoca la decisa opposizione delle forze antifasciste, che da Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, sferrano un’offensiva tale da costringere alle dimissioni Tambroni, che con il suo ministro degli interni aveva in mente di concedere la piazza del capoluogo ligure al MSI per tenervi il congresso nazionale. Questo partito da Michelini ad Almirante sostiene tutte le battaglie di retroguardia in parlamento sul piano dei diritti civili, guidate da una DC ancora ostaggio di frange clericali non immemori degli anatemi di Pio XII contro i comunisti e affini. Non lo fa per mero servilismo alla DC, ma perché interessato a segnare la sua presenza come necessaria e irrinunciabile nell’offensiva maccartista. Emergerà persino che non è estraneo alle devianze dei servizi segreti, da Gladio al tentativo piuttosto ridicolo di golpe attribuito a De Lorenzo, nella sempre debole democrazia repubblicana. Il punto più alto per il MSI e più basso per la DC si toccherà con l’infausta elezione di Mario Segni al Quirinale, una “pennellata” come la definiranno i neofascisti. E allora quanti si attardano ad affermare che il fascismo è finito, morto e seppellito, farebbero bene a ricordare tutti questi eventi e riconoscere che in realtà il fascismo sarà pure morto, ma i neofascisti restano e non sono meno pericolosi e deleteri dei loro antenati degli anni Venti del Novecento. Infatti non perdono occasione di dileggiare la democrazia repubblicana in tutte le ricorrenze commemorative dell’antifascismo militante, minoritario ma attivo tuttora, fortunatamente. Solo che oggi questo non basta. Passi che si sia caduti nella rete subdola di Fini e del suo preteso lavacro di Fiuggi, ma oggi il neofascismo si alimenta del disagio dei ceti impoveriti dalla crisi economica e dalla pandemia da Covid 19, dalla richiesta di sicurezza e di preservazione dell’identità nazionale a petto di un’immigrazione destinata a crescere. I neofascisti li troviamo lì, puntualmente disposti a sostenere i regimi autoritari dell’est europeo, dalla Polonia all’Ungheria. Sarebbe un grave errore politico non ammettere che non è più tempo di far finta di non vedere e ignorare che la democrazia è più che mai esposta ad aggressioni non più, certo con i manganelli e le violenze del passato, ma con le armi ancora più pericolose della facile aggregazione via social web su temi quali la sicurezza, l’antiscienza dei no vax e via elencando. La risposta democratica esige decisione e fermezza, se non si vuole che le conquiste della Resistenza vengano relegate a pallido ricordo di progetti legati ad un antifascismo ormai non più percepito come volontà di cambiamento radicale nei rapporti sociali ed economici.

Enrico Esposito