Atalanta era una Ninfa

Atalanta era una ninfa non una dea. Era sacerdotessa di Artemide, dea della caccia. Appena nata, il padre che voleva un erede, non l’accettò e l’abbandonò sul monte Parthenion. Ma la bimba fu tratta in salvo da un’orsa che la nutrì con il suo latte. Poi venne adottata da alcuni cacciatori, che la fecero crescere tra i boschi e le insegnarono l’arte della caccia. Atalanta era bellissima e molti giovani della Beozia l’avrebbero voluta sposare. Ma un oracolo aveva predetto alla ragazza che non avrebbe mai dovuto prendere marito e che se si fosse sposata sarebbe stata trasformata in un animale feroce. Così Atalanta rifiutò qualsiasi proposta di matrimonio e si dedicò alla caccia, consacrandosi ad Artemide. La fama della sua bellezza si diffuse dappertutto e i giovani di ogni regione non rinunciarono a corteggiarla. D’altronde era una fanciulla incantevole e nessuno sfuggiva al suo fascino: aveva lunghi capelli neri annodati sulla nuca, un corpetto di morbido cuoio le proteggeva il bel seno e sulle spalle portava una faretra di avorio colma di frecce appuntite, mentre la mano sinistra reggeva un arco di legno di acero, levigato e lucido. Nessuna meraviglia allora se i pretendenti aumentavano di giorno in giorno e diventavano sempre più insistenti. Atalanta un bel giorno si decise a rispondere: “E va bene, sposerò uno di voi. Diventerà mio marito chi riuscirà a vincermi nella corsa.” la ragazza era sicura che nessuno sarebbe stato capace di superarla. Era cresciuta correndo a perdi fiato tra le selve ad inseguire prede di caccia ed ora correva veloce come il vento. La sfida venne accettata da numerosi giovani innamorati di lei perdutamente, tanto da non arretrare quando la ragazza li informò che se non fosse stata battuta nella corsa il giovane avrebbe perso la vita. Atalanta era piena di grazie, ma sapeva essere anche spietata. Molti giovani infatti vennero morirono all’istante dopo aver perso la gara di velocità con la ninfa. Tanti altri rinunciarono a sfidarla, ma ci fu qualcuno deciso a conquistarla ad ogni costo. Si chiamava Melanio ed era nipote di Poseidone, il dio del mare. Era arrivato sui monti della Beozia solo per assistere alla gara e non aveva nessuna intenzione di rischiare la vita per una ragazza. Anzi se la prendeva con tutti quelli che andavano incontro al rischio di morte e li giudicava dei pazzi sconsiderati. Ma, quando vide Atalanta in tutto il suo splendore, non seppe resistere e chiese di gareggiare anche lui. Affrontò la ragazza a viso aperto: “Non vantarti delle tue vittorie. Sono solo degli incapaci quelli che fino ad ora ti hanno sfidato. Provaci con me, se hai coraggio. Io sono Melanio e discendo da Poseidone.” Atalanta ascoltò meravigliata e ammirata quel giovane tanto audace quanto nobile e tanto bello. Quale ragazza non l’avrebbe desiderato come sposo? Ma perché ora voleva gareggiare con lei, sapendo a che cosa andava incontro? Era poco più che un ragazzo e Atalanta provò pietà per lui, ma ormai la sfida era lanciata e lei non poteva tirarsi indietro. Melanio intanto si rivolse a Venere, la dea dell’amore e implorò la sua protezione durante la gara. Ed ecco che cosa avvenne. Nell’isola di Cipro, consacrata alla dea, c’era un albero dalla bionda chioma, che brillava al sole come l’oro. Anche le mele erano d’oro e Venere ne raccolse tre per darle a Melanio, insegnandogli anche come usarle nella gara con Atalanta. E la gara incominciò. Appena dopo l’avvio Atalanta era già davanti al suo rivale. Sembrava volare a pelo d’erba, tanto era leggera e veloce. Melanio allora le mostro la prima mela d’oro e la posò per terra. Atalanta incuriosita e affascinata dal frutto dorato si fermò per ammirarlo da vicino e Melanio la sorpassò. Ma la ragazza recuperò il terreno perduto e riconquistò presto la prima posizione. Melanio allora agitò la seconda mela in aria e la pose sull’erba. E ancora Atalanta si fermò per raccoglierla e Melanio la superò. Ma anche questa volta colmò il distacco correndo più veloce di prima. Il traguardo non era lontano e a Melanio restava una sola mela. Mancavano pochi metri al nastro di arrivo e pensò di legare una pesante pietra alla terza mela. Atalanta non rinunciò a raccogliere ancora il frutto d’oro scintillante, si fermò, lo raccolse, ma la ripartenza fu lenta e impacciata. Cadde sfinita a terra, mentre Melanio tagliava vittoriosamente il traguardo.

I due giovani si sposarono e Atalanta gradì molto unirsi a quel giovane tanto bello e tanto forte. Si desideravano entrambi appassionatamente dimentichi di tutto. E Melanio dimenticò purtroppo di ringraziare Venere, che non la prese bene. I due sposini vivevano felici la loro luna di miele e si fermarono in un boschetto di alberi odorosi. Vicino c’era un tempietto dedicato alla dea Cibele e qui i due innamorati non resistettero alle gioie dell’amplesso più dolce. Ma questa era un atto sacrilego che Venere aveva favorito per vendicarsi. Ne seguì una punizione severa e inevitabile. I due ragazzi videro crescere sul collo bionde criniere, mentre le dita diventavano artigli e dalle spalle uscivano zampe nodose e una lunga coda s’originava dal fondo schiena. Erano stati trasformati da Cibele in due leoni. I boschi risuonavano dei loro lamenti, ma infondo s’era avverata la profezia: se Atalanta si fosse sposata sarebbe stata trasformata in una bestia feroce.

Se fosse stata una dea non avrebbe avuto tale ingrato destino, ma era solo una ninfa che non aveva osservato il voto del nubilato perpetuo. Eppure riferendosi all’Atalanta di Gasperini si continua a chiamarla dea. Era una ninfa, come mito vuole. Dea è la squadra che porta il suo nome, per il bel gioco che esprime e per la velocità dei suoi interpreti. Se Atalanta avesse gareggiato contro Zapata o Ilicic non ci sarebbe stato bisogno del trucco delle mele d’oro.

Enrico Esposito