Carlo Scorza e la fine del dittatore

La notte del Gran Consiglio, il 25 luglio del 1943, Carlo Scorza, ultimo segretario del partito nazionale fascista, originario di Paola tentò di mediare tra Mussolini e Grandi, tra il dittatore e i suoi avversari interni. Non riuscì a salvare il Duce e venne addirittura considerato un traditore da eliminare dopo la creazione della Repubblica di Salò. Riuscì a rifugiarsi in Argentina e non fece così la fine di Ciano e soci, fucilati dopo il processo di Verona. Appena qualche mese prima Mussolini l’aveva imposto come segretario nazionale del suo partito, nell’estremo tentativo di ricorrere alla vecchia guardia squadrista per salvare se stesso e il regime. E Carlo Scorza fu fascista attivo fin dalla prima ora. Ai tempi della “marcia su Roma” guidava gli squadristi a Civitavecchia, pronto a piombare sulla Capitale se le cose fossero andate male. Nel mese di giugno del ’43 fece avere al dittatore una dettagliata relazione politica sulle condizioni dell’Italia e sullo spirito pubblico del paese. Il consenso della gente andava sempre più arretrando e Carlo Scorza non esitò a parlare di esaurimento della “spinta propulsiva” del fascismo originario, sansepolcrista e anticlericale. Per di più avanzava più di un dubbio sull’alleanza con la Germania di Hitler. Ma i tempi erano cambiati e la popolazione italiana era allo stremo per l’insufficienza delle risorse alimentari e per lo scoramento causato dall’andamento della guerra in Africa e in Russia. Per di più nello stesso partito fascista venivano allo scoperto quanti miravano ad un regime senza il suo fondatore nel tentativo disperato di salvare il salvabile. Nella notte del Gran Consiglio, Scorza si impegnò fino all’ultimo nel trovare una soluzione di compromesso che evitasse la caduta di Mussolini e la fine della dittatura. Da fascista della prima ora, annoverato a Lucca tra i più decisi a imprimere al fascismo un carattere ancora più autoritario e intransigente, non nascose mai i suoi sentimenti anticlericali, incurante o ignaro del fatto che il suo capo brigava per pervenire ad un accordo con il papato, realizzato poi con i Patti Lateranensi del ’29. Che fosse un fascista violento e infido lo testimonia il proditorio comportamento nell’agguato a Giovanni Amendola. Il capo dell’opposizione democratica e liberale si trovava a Montecatini per curarsi dalle conseguenze delle bastonature fasciste e tuttavia si decise a lasciare la località termale per il malcontento che la sua presenza provocava tra la gente. Si temeva per la sua incolumità, visti i precedenti di Matteotti e altri. Garante dell’incolumità del leader democratico venne incaricato Carlo Scorza. Nella contrada Serravalle lungo la strada tra Montecatini e Pistoia, la macchina venne bloccata da una squadraccia di fascisti e Amendola venne selvaggiamente bastonato, senza che Carlo Scorza facesse nulla per impedire l’aggressione. Era la sera del 20 luglio 1925 e i giornali di regime del giorno dopo plaudivano alle manganellate che poi dovevano costringere Amendola a riparare a Cannes dove morirà l’anno dopo. Da quel momento però Scorza venne ridimensionato ad un ruolo locale in Toscana e ridotto all’impotenza. Mussolini si ricordò di lui solo nell’aprile del ’43, quando gli affidò la segreteria di un partito che diventava sempre più inaffidabile e indebolito dalle faide interne. La soluzione non diede i frutti sperati e il dittatore dovette prendere amaramente atto che anche il suo fido Scorza gli voltava in qualche modo le spalle. Scorza morì nel 1988, all’età di 91 anni. Di lui Giuseppe Bottai scrisse che mutuò il “mimetismo mussoliniano” e ne assunse persino gli atteggiamenti con i suoi occhi vitrei, da belva ferita, “pieni di riflessi, ma non di riflessione”.

Enrico Esposito