Democrazia, quale futuro?

Che ne sarà della nostra democrazia durante e dopo il lockdown? Le misure adottate in piena pandemia rimarranno senza conseguenze o dovremo temere di vedere ridotti i nostri spazi di libertà? Già si intravedono segnali d’insofferenza anarcoide e nel contempo tentativi malcelati di servirsi dell’emergenza sanitaria per imporre provvedimenti costretti dall’emergenza del momento finalizzati al ridimensionamento autoritario delle conquiste in materia di diritti civili, e non solo, realizzate nel secolo scorso. Non è un caso che si parta dalla sanità per invocare l’accentramento dei poteri in materia, sottraendoli alla gestione regionale. Questa che andiamo patendo da mesi non è certo l’ultima delle pandemie. C’è purtroppo da prevedere che, in un mondo malato come il nostro e che soffre di mali creati da noi stessi con l’inquinamento industriale, l’aggressione senza fine alle risorse ambientali e tutto quanto ne deriva a danno di una sana e corretta convivenza, altre minacce virali incombono sul pianeta. Il cosiddetto ritorno alla normalità non promette niente di buono, immemori come siamo che è esattamente la normalità che abbiamo vissuta a disseminare malattie, carestie e tante altre sofferenze globali. In questo quadro, necessariamente desolante, è inevitabile preoccuparsi del futuro della democrazia. Ma di quale democrazia parliamo?

Se si andasse a riprendere un testo di Gustavo Zagrebelsky intitolato Il crucifige della democrazia, edito da Einaudi nel 2007, potremmo forse meglio attrezzarci per affrontare le sfide che incombono. Ancora non era scoppiata la terribile crisi economica e finanziaria del 2008, ma per chi sapeva guardare al domani con occhio libero e non offuscato dalla trionfante logica liberista il timore che a sostenerne l’urto autoritario la nostra democrazia arrivava disarmata e impotente era già fortemente avvertito. Zagrebelsky si rifaceva a quello che non fu solo un processo ad un giovane che si presentava come figlio di Dio, ma, visto l’esito determinato dalla folla a sostegno di Barabba, c’era dell’altro. Da un lato infatti si aveva il Sinedrio che con Caifa imponeva una democrazia dogmatica, autoritaria e repressiva, dall’altro la democrazia scettica di Pilato pronto a strumentalizzare gli istinti belluini della piazza nell’interesse dell’impero romano. Grande assente risultava la democrazia critica, capace di riconoscere i propri errori, rimettersi in causa e ricominciare da capo. Oggi il problema si ripropone, in forme se possibile ancora più drammatiche. Gli assembramenti di piazza a dispetto della pandemia spesso causano pronunciamenti oclocratici, anticamera per ogni tipo di autoritarismo e persino di tirannia. Per questo è indispensabile ripensare la democrazia in vista di un suo arricchimento. In questo senso ripristinare strumenti del passato non serve. Le autonomie locali sono una conquista da difendere e potenziare. Ma c’è da temere che i guasti dello Stato accentratore siano stati dimenticati troppo frettolosamente e che le indubbie defaillances nel sistema autonomistico registrate in alcune zone del paese vengano prese a pretesto per una restaurazione centralista di per sé autoritaria e non di rado liberticida. Un filosofo convertito al tronismo televisivo ha osservato che l’Italia non è come gli USA. Ha ragione, l’Italia è qualcosa di più, da quando ha inventato i Comuni. Nel suo seno le aree che i Comuni non hanno avuto si sono trovati a patire danni inenarrabili e non ancora del tutto debellati. Ma servirsi di questo per rinculare verso soluzioni accentratrici è un danno ancora maggiore.

La indicibile pandemia da Covid-19 non ci ha ancora convinto della tragicità che siamo chiamati a vivere. E il tragico, ci ricorda Lucien Goldmann, è il necessario impossibile. In questa tenaglia è costretta la democrazia oggi: la necessità di agire in condizioni impossibili. Ma proprio in questo scenario si vedrà se i suoi agenti avranno la forza e l’ardimento di non inseguire facili soluzioni di retroguardia e di percorrere al contrario sentieri impervi ma necessari. Lo diceva già Pitagora questo, e cioè che il saggio non segue la strada comune, detta pomposamente maestra, ma batte sentieri propri, autonomamente disegnati? Tanto meglio.

Enrico Esposito