La Calabria e la cultura

La Calabria e la cultura, una rivoluzione incompiuta. Corrado Alvaro, nel 1950, pubblicò su “Il Ponte”, diretto da Piero Calamandrei, “L’animo del calabrese”, un testo che conviene rileggere. Dopo settant’anni l’impressione che se ne ricava è che le grandi speranze che dopo la guerra si riponevano nelle nuove generazioni sono andate a mano a mano dileguandosi. Alvaro registrava un fatto epocale nella storia calabrese, quando agli inizi del Novecento, “non esistendo altri mezzi per la classe piccola e media alla conquista di una condizione migliore, essa si rivolse agli studi, alle lauree, ai diplomi, avviando i figli, con sacrifici inenarrabili, alle professioni liberali e agli impieghi.” Fu una vera e propria rivoluzione, le classi disagiate vedevano nella cultura il mezzo più adatto al riscatto sociale della Calabria. Prima prevaleva un atteggiamento di soggezione nei confronti della cultura, al tempo patrimonio esclusivo dei ceti privilegiati, per lo più proprietari terrieri riottosi a qualsiasi idea di rinnovamento sociale e politico. Ma il calabrese, dice Alvaro, da sempre portato alle grandi idee e disposto a tutto pur di realizzare progetti di sviluppo, alla cultura si rivolse e fece di tutto per permettere ai giovani di accedere al mondo delle professioni e degli impieghi con la speranza di rinverdire un mondo rinsecchito nel vagheggiamento sterile di antiche età gloriose, che si voleva ad ogni costo riesumare. Il mito della “calabresità vetusta”, come lo definiva Antonio Piromalli, diventava così strumento di azione politica in ottica progressista. O meglio, poteva diventare strumento di rinnovamento ma così non fu. “Fu una vera iattura” diceva ancora Corrado Alvaro “che a questo slancio non rispondesse un’organizzazione sociale, tecnica, mercantile, agricola, nè scuole tecniche e di arti e mestieri che potessero convogliarlo. Perché è raro riscontrare in Calabria quei fenomeni di iattanza della gente incolta verso la cultura, la cultura considerata come un mestiere di aùguri, la fabbrica delle bugie. Il calabrese è curioso di conoscere e di sapere, la sua delizia è ascoltare persone colte che parlano, anche se a lui non arriva interamente il senso dei grandi e profondi concetti. E’ come il povero davanti allo spettacolo di una festa apparecchiata, non per lui, di cui gli arrivano i suoni, le luci, i colori. Senza invidia. Con un cocente rimpianto d’un bene fatto per tutti gli uomini.”

Un atteggiamento che è cambiato nel tempo, proprio ad opera dei giovani professionisti, laureati e diplomati, che, educati o assuefatti a vedere nella cultura un’occasione di potere e di dominanza sociale e politica, non di rado al momento di scegliere da che parte stare si schierarono dalla parte proprio di quei ceti da sempre ostili all’alfabetizzazione e alla scolarizzazione . Parteciparono così a quel banchetto anche loro, magari godendo di quell’invidia sociale che i loro padri non avevano, nel coltivare con umiltà il sogno di condividere un bene, quello della cultura, destinato a tutti. Solo in pochi sostennero le lotte dei ceti detti allora subordinati. Parteciparono all’occupazione delle terre incolte, agli scioperi di braccianti e coloni, poi… Poi più niente, se non l’ondata triste dell’ultima emigrazione che tolse alla Calabria le forze necessarie al rinnovamento e al riscatto.

Da allora questa terra pare abbandonata a se stessa, senza ideali e senza speranza, i giovani emigrano come prima i loro antenati, pochi restano a riprendere battaglie ritenute impossibili, ma le fanno lo stesso, perché sanno che è l’unico modo di migliorare le cose. Meritano rispetto e incoraggiamento, vigilando che non cadano anche loro nelle insidie dei soliti ceti dominanti, capaci di attirarli per svilirne lo slancio di cui parlava Alvaro e fare in modo che nulla cambi. Sarebbe una iattura ancora maggiore, che la Calabria non può più permettersi.

Enrico Esposito