Lotta di classe no, anzi sì

Che la lotta di classe sia superata non è un’idea di Claudio Martelli, che nel primo numero del nuovo “Avanti!” l’ha definita “un ferrovecchio”. Tutta la storia del socialismo e del movimento operaio è attraversata da questo problema. E non solo la storia socialista, ma in generale la storia dei rapporti sociali all’interno della nazione che si forma e si impone nell’Ottocento riporta accesi e vivaci dibattiti sul tema, in Italia dibattuto già nel cosiddetto decennio di preparazione che precede la formazione dello stato unitario. Uno dei protagonisti è stato Giuseppe Mazzini, anche in questo su posizioni differenti da quelle di Garibaldi. Mazzini stesso, alla Prima Internazionale nel 1864, abbandonò il campo, non si sa se più deluso o terrorizzato da Carlo Marx e i suoi seguaci. E’ proprio la lotta di classe che non riusciva ad accettare lui come tanti altri. La questione si trascina ben oltre la metà del Novecento. Il duro e ricorrente conflitto tra riformisti e massimalisti si enuclea in fondo su questo punto, lotta di classe o no. Tra le correnti riformiste proprio il socialismo mazziniano è stato un’esperienza senz’altro minoritaria, ma anche poco considerata in seguito sul piano storiografico. Da Prampolini a Turati l’opzione riformista ha come costante l’indifferenza nei confronti del socialismo firmato Mazzini. Per di più l’ipoteca comunista sulla storiografia del movimento operaio e socialista è stata tale da sospingere nel dimenticatoio tutto quanto non fosse riconducibile al ruolo epifanico preteso dalle fazioni che provocarono la scissione del 1921, da cui nascerà il PCI. Solo nel primi anni Settanta del ‘900 Umberto Terracini riconoscerà che a Livorno aveva ragione Turati, l’avversato socialista riformista, mentre Palmiro Togliatti aveva trattato con protervo disprezzo il socialismo liberale dei fratelli Rosselli, quel Togliatti che nel 1936 concepì la lettera ai “fratelli in camicia nera”, anticipando le motivazioni che lo portarono a sostenere il patto di Stalin con i nazisti del 1939. Il socialismo mazziniano non era però scomparso e rifuggire la lotta di classe restava un punto chiave, mentre propugnava piuttosto la collaborazione e la solidarietà fra le classi. Così come sosteneva il principio mazziniano dell’emancipazione dei lavoratori come impegno supremo dei lavoratori stessi. Dal 1946 al 1957, in particolare, l’Idea Repubblicana, si definiva “rassegna di socialismo mazziniano”. Venne fondato da Giulio Andrea Belloni (1902-1957), studioso di diritto formatosi alla scuola positivista di Enrico Ferri e nella collaborazione con Arcangelo Ghisleri. Militò nel Partito Repubblicano Italiano, nelle cui file venne eletto anche deputato. Il suo socialismo mazziniano non divenne mai un partito, ma l’impegno a diffondere il pensiero sociale di Mazzini vide Belloni protagonista di una polemica pubblicistica in cui ricorrevano spesso riferimenti a Piero Gobetti, ai Rosselli e a Gaetano Salvemini. L’idea che la lotta di classe non fosse proprio una priorità continuava ad essere sostenuta con vigore e coerenza.

Oggi di quella esperienza resta poco o niente, ma rileggere il volume di Belloni del 1946, Il socialismo mazziniano, potrebbe offrire utili elementi di riflessione anche alla luce del nuovo scontro sociale in atto. Oggi come ieri la lotta è sempre e comunque tra ricchi e poveri, tra padroni e sfruttati. Che poi la si chiami lotta di classe o in qualsiasi altro modo poco importa. Le povertà create dalla globalizzazione sono il punto di partenza di qualsiasi opzione socialista. Da tempo pensatori come Habermas individuano in un nuovo socialismo l’unico modo per colmare il baratro delle differenze sociali ed economiche. In tal senso non giovano certo politiche di riduzione dei diritti dei lavoratori, si chiamino jobs act o altro. C’è tanto da ripensare nella sinistra socialista, ma c’è anche tanto da abbandonare, a partire dalla rassegnata convinzione che il capitalismo abbia vinto per sempre e che la logica del profitto sia l’unico criterio-guida anche per il mondo del lavoro.

Enrico Esposito