Se Aushwitz è nulla

E’ il titolo di un saggio di Donatella Di Cesare, docente di Filosofia alla Sapienza. Con questo scritto la studiosa stigmatizza un atteggiamento duro a morire nelle opinioni sulla shoah. Si tratta del riduzionismo, e cioè la pretesa, chiaramente infondata, di ridurre lo sterminio degli ebrei ad uno dei tanti eccidi della storia. E’ una reazione ancora più pericolosa del negazionismo, condannato non solo dalla storiografia ma anche in sentenze che ormai costituiscono un vero e proprio corpus da studiare e analizzare in tutte le sue sfaccettature, a incominciare da quella del 1996 contro David Irving in Gran Bretagna. Una sentenza che respinge l’idea che la storia si possa narrare in base alle proprie opinioni politiche: a nessuno si vuole togliere la la libertà d’opinione, ma uno storico non può piegare i fatti storici a prova della validità delle proprie posizioni. Ma sbugiardare il negazionismo antisemita, anche se ha richiesto dure battaglie sia sul fronte storico-politico sia sul fronte giudiziario, alla fine si è rivelato più agevole di quanto non sia tuttora il riduzionismo. Innumerevoli testimonianze hanno dimostrato che i lager in tutta Europa non erano invenzione della propaganda ebraica e antinazifascista. Il riduzionismo invece è una contromossa subdola, che rischia di trovare accoglienza con lo stratagemma che porta ad affermare che in fondo Aushwitz è stato sì un orrendo genocidio, ma quanti altri ce ne sono stati e nessuna giornata della memoria li considera? Tant’è che anche nelle scuole, dove il 27 gennaio 1945, si ricorda in maniera stanca e ripetitiva, si trova sempre qualche docente o qualche alunno mal indottrinato che invita a ricordare gli altri genocidi di cui è costellata la storia dell’umanità. Come dire: perché ricordare solo Aushwitz, perché emozionarsi solo per i sei milioni e passa di ebrei sterminati? E le altre vittime dei tanti stermini del Novecento e delle altre epoche? Sono domande chiaramente strumentali, che nascondono un’altra faccia dell’antisemitismo sempre attivo e pericoloso. Si cerca di respingere, senza negare questa volta, l’idea che la shoah possa essere un unicum nella storia. Diceva David Grossmann che per tutti gli altri eccidi e tutte le altre stragi che insanguinano le pagine della storia si può al limite trovare una spiegazione non certo giustificativa, ma reale, la conquista di un territorio, di un pozzo petrolifero, di un corso d’acqua e altro, ma per la shoah non c’è alcuna spiegazione, tanto meno alcuna giustificazione. E’ stato odio razziale allo stato belluino, con metodi efferati e per tanta parte inediti, quanto a crudeltà e ferocia. Allora perché? E’ quanto ci si chiede dalla liberazione del lager simbolo della persecuzione contro ebrei, testimoni di Geova. omosessuali, zingari, sinti e minorati. A questo proposito George Steiner in Morte della tragedia, edito nel 1961, racconta che poco dopo la fine della guerra viaggiava in treno lungo la Polonia meridionale. I passeggeri raccontavano le atrocità cui avevano assistito o di cui avevano sentito parlare. “Una donna raccontò ciò che era stato fatto a sua sorella nel campo di Mauthausen, Non lo ripoterò” dice Steiner ” perché è una di quelle cose che le parole non bastano a esprimere. Restammo tutti in silenzio per un poco, poi un uomo più anziano disse che conosceva una parabola medievale che poteva aiutare a capire come si fosse giunti a tanto: In un oscuro villaggio della Polonia centrale c’era una piccola sinagoga. Una notte, mentre faceva il suo giro d’ispezione, il rabbino entrò nella sinagoga e vide Dio , seduto in un angolo buio. Il rabbino cadde in ginocchio col volto in terra e gridò:Signore Iddio, cosa stai facendo qui?’ E Dio gli rispose con una voce flebile, che non usciva da un tuono né da un vortice di vento:’ Sono stanco, rabbino, sono mortalmente stanco.’ E Steiner ne deduce che Dio era ( ed è?) stanco della crudeltà dell’uomo. “Forse non era più capace di dominarla e non riusciva più a riconoscere la propria immagine nello specchio della creazione.” Una considerazione in quel momento disperata, ma che angoscia anche noi, oggi. Ma, tornando al tema di questa nota, un’altra domanda non certo secondaria bisogna porsela: perché ci ricordiamo degli altri genocidi solo il 27 gennaio di ogni anno? Non ci sono tanti altri giorni a disposizione per richiamare la nostra coscienza sulle stragi in Uganda o in Cambogia e in altre parti del mondo? Chi vieta di ricordarle? Ma farlo il, 27 gennaio è improprio: quel giorno ricorda la liberazione di un lager ad opera delle truppe sovietiche. Non certo la fine dell’odio razziale e di tulle le altre efferatezze che il mondo registra, spesso nell’indifferenza e, cosa ancora più grave, nel ridurre questa tragica esperienza umana a una fra le tante. La banalità del male, al di là delle intenzioni, si ripete. Per evitare che accada ancora, bisogna ricordare non un solo giorno all’anno.

Enrico Esposito